Gli Stati Uniti hanno ritirato i vivi dall’Afghanistan, cioè i soldati, i diplomatici e gli altri lavoratori in prima fila, ma hanno mantenuto e continueranno a mantenere in loco una presenza spettrale, ovverosia basata su spie, agenti segreti e altri operatori senza volto né bandiera. Perché se è vero che ritirarsi era un atto dovuto – imposto dall’incedere della competizione con la Repubblica Popolare Cinese –, lo è altrettanto che l’alternativa ad una previdente presenza limitata potrebbe essere una riedizione della Guerra al Terrore nel prossimo o lontano futuro.

È all’interno di questo contesto di ritirate strategiche e presenze tattiche, dove nessun teatro è mai realmente irrilevante – perché questa è l’epoca delle guerre senza limiti (e senza confini) –, che l’amministrazione Biden avrebbe cominciato a valutare concretamente una recente proposta della presidenza Putin in materia di monitoraggio da remoto del pantano afghano.

Milley incontra Gerasimov

La scorsa settimana, più precisamente di mercoledì, il generale e capo dello Stato maggiore congiunto Mark Milley aveva avuto un incontro con l’omologo russo Valery Gerasimov. La notizia della bilaterale, avvenuta a Helsinki (Finlandia), era stata comunicata immediatamente da entrambi i governi, ma nulla era trapelato in merito al contenuto della conversazione. E il livello di segretezza, associato alla spettacolarità dell’evento – l’ultimo faccia a faccia tra Milley e Gerasimov era datato 2019 –, aveva stuzzicato le fantasie dei più dietrologi. Poi, ad una settimana di distanza dalla bilaterale di Helsinki, il Wall Street Journal ha dato ragione alle letture dietrologistiche: il riserbo mantenuto era legato alla sensibilità del tema affrontato dai due capi militari, ovverosia la possibilità di una cooperazione limitata nella sorveglianza a distanza degli sviluppi terroristici nel pantano afghano.

Nello specifico, secondo quanto riportato da fonti militari che hanno parlato con il WSJ, Milley avrebbe chiesto a Gerasimov maggiori dettagli sulla proposta avanzata da Vladimir Putin a Joe Biden in sede di colloqui di Ginevra. Proposta inerente la possibilità per gli Stati Uniti di utilizzare le basi militari russe in Asia centrale per monitorare l’Afghanistan da remoto e che, a lungo ignorata, l’amministrazione Biden avrebbe cominciato a considerare dopo la ritirata disastrosa di Kabul e l’entrata degli Haqqani nel governo talebano.

Cosa succederà?

L’incontro, che Milley ha definito “molto produttivo”, avviene all’interno del progressivo riorientamento del mirino dell’agenda estera degli Stati Uniti dall’Eurafrasia all’Indo-Pacifico. La Casa Bianca, in questo contesto dinamico e in costante evoluzione, abbisogna di qualcuno che le garantisca che i teatri chiusi restino tali, onde evitare di incorrere in una pericolosa sovraestensione imperiale. E in Afghanistan quel qualcuno potrebbe essere l’aminemica Russia.

Non avendo a disposizione delle basi in Asia centrale, e non avendo (al momento) portato frutti il corteggiamento defilato dei mesi scorsi nei confronti del Tagikistan, agli Stati Uniti non restano che tre opzioni: il riavvicinamento del Pakistan – complicato dall’influenza dell’ascendente Cina –, una proposta azzardata all’Uzbekistan – il più russo- e sino-scettico tra gli –stan – e una collaborazione circoscritta con la Russia – la quale, è sottinteso, non farà niente per niente.

Tra il dire e il fare, però, come si suol dire, c’è il mare. Nel caso degli Stati Uniti quel mare è costituito dal neomaccartismo e dal fattore Ucraina, con il primo che inibisce qualsivoglia tentativo di avvicinamento e con il secondo che non può essere completamente trascurato – perché l’approvazione del Nord Stream 2 è stata percepita come un tradimento dagli ucraini. Il peso del fattore Ucraina, nello specifico, è dato dall’esistenza di un divieto esplicito allo stabilimento di forme di cooperazione militare con la Russia, anche limitate, sancito dal National Defense Authorization Act 2014.

Donald Trump fu il primo inquilino della Casa Bianca a mettere in discussione il divieto, nell’ottica di una collaborazione anti-Daesh con il Cremlino, ma il piano, come è noto, non avrebbe mai visto luce. Biden, per quanto goda di un clima politico più stabile e favorevole, se realmente volesse accettare la proposta dell’aminemico, dovrebbe affrontare lo stesso percorso – il temuto Congresso – o aggirarlo con degli abili machiavelli – come un’autorizzazione speciale per ragioni di sicurezza nazionale.

Non è dato sapere se il nuovo inquilino della Casa Bianca riuscirà laddove il predecessore ha fallito, ma il bilancio dei primi otto mesi di presidenza gli è favorevole. Biden, invero, sta esperendo tutto ciò che desidera, dagli affari domestici a quelli internazionali, come dimostrato dal Bipartisan Infrastructure Framework, dal NS2, dal vertice con Putin e dalla ritirata dall’Afghanistan.

Biden, in sintesi, non ha tutto il mondo (politico) contro, a differenza di Trump, e questo potrebbe aiutarlo notevolmente a rompere uno dei grandi tabù dell’America: la cooperazione militare con la Russia. Le uniche domande da porsi, a questo punto, sono le seguenti: Biden correrà il rischio di minare ulteriormente la propria immagine? E che cosa vorrebbe Putin in cambio di tale concessione condizionata? Le risposte condizioneranno in maniera determinante la traslazione di questo proposito dal reame delle idee a quello dei fatti.





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