Sono passati esattamente vent’anni dal 6 dicembre 1998, giorno in cui Hugo Chavez trionfò con il 56,2% alle elezioni presidenziali venezuelane, insediandosi al Palazzo di Miraflores e avviando una svolta politica che avrebbe cambiato per sempre la storia del Paese. A guidare Chavez verso un successo plebiscitario, il primo di quattro in altrettanti voti presidenziali, furono le grandi aspettative rivolte verso l’agenda politica del leader del Movimento Quinta Repubblica, divenuto poi Partito Socialista Unito Venezuelano.
L’ascesa di Hugo Chavez
Nel 1929 il Venezuela è diventato il più grande esportatore di petrolio al mondo, e tale è rimasto fino alla fine degli anni Sessanta. Negli anni Settanta Caracas era considerata la Parigi dell’America Latina e un professore universitario venezuelano guadagnava più di un suo omologo in Germania occidentale. Dopo questa fase favorevole, il Venezuela aveva conosciuto tra gli anni Ottanta e Novanta un incremento delle disuguaglianze sociali connesso, soprattutto, all’incapacità della classe politica dominante di indirizzare verso politiche efficienti i proventi della rendita petrolifera.
Il chavismo nasce dalla reazione della massa della popolazione venezuelana, dalla piccola imprenditoria urbana ai popoli indigeni, contro questo stato di cose, e nel corso del quindicennio di governo del “Comandante” ha plasmato un nuovo Stato che, incarnando ideali fatti risalire direttamente al Libertador Simon Bolivar, ha a sua volta ispirato la sinistra latinoamericana a cavallo tra XX e XXI secolo. Nel corso del tempo, tuttavia, la retorica bolivariana non ha potuto mascherare la reale natura dell’esperimento politico, trasformatosi in una riproposizione del modello di capitalismo rentier basato sull’estrazione petrolifera con la comparsa di una nuova élite burocratico-militare.
Da Chavez a Maduro
Corruzione e inefficienza politica hanno contribuito ad aggravare il clima sociale del Paese dopo la morte di Chavez (2013) e l’ascesa alla presidenza di Nicolas Maduro. Maduro, complice il tracollo dei prezzi petroliferi sui mercati globali che ha aperto clamorosi vuoti di bilancio, si è dimostrato incapace di gestire il dissesto politico-sociale del Venezuela e ha dovuto fronteggiare un’opposizione agguerrita che più volte non ha lesinato violenze di strada e proteste clamorose, arroccandosi su una difesa reazionaria del sistema creato da Hugo Chavez che ha portato a un veloce deperimento delle conquiste delle amministrazioni precedenti in materia di lotta alla povertà e diritti sociali.
Oggigiorno, il Venezuela è ciò di più prossimo a uno Stato fallito che si possa trovare in America Latina. Tre milioni di persone sono fuggite dal Paese dal 2015 a oggi e il governo di Caracas è diventato l’emblema del fallimento politico, e la condizione interna del Venezuela è additata dagli avversari di tutte le sinistre latinoamericane che Chavez ha saputo ispirare come inevitabile conseguenza di una loro vittoria elettorale, come dimostrato nel recente voto brasiliano.
Ma come è stato possibile un tale rovesciamento di sorti? Che responsabilità ha Hugo Chavez nel tracollo del Venezuela manifestatosi negli anni di presidenza di Maduro e constatabile da un tasso di povertà pari al 90%, da un crollo del Pil del 15,7% nel solo 2017 e da un’iperinflazione che potrebbe toccare la quota di dieci milioni di punti percentuali nel 2019? In altre parole, le politiche di Chavez prefiguravano le conseguenze disastrose di oggi, e dunque il ventennio chavista è da considerarsi una “catastrofe in slow-motion” come ha scritto il Guardian?
Molti interrogativi non hanno ancora ricevuto risposte, ma le evidenze ci portano a considerare che Chavez e Maduro abbiano portato a una svolta più retorica che sostanziale del Paese, verniciando col socialismo bolivariano le problematiche che attanagliavano in passato il Venezuela.
Il socialismo che dipende dalla rendita petrolifera
Intendiamoci: i tassi di consenso di Chavez tra la popolazione sono stati, per lungo tempo, genuini: basti pensare al caso del tentato golpe contro il Presidente del 2002, che fu sventato da una grande manifestazione popolare in meno di una giornata.
Come ha fatto lucidamente notare Giuliano Garavini su Micromega, “Chavez ha incarnato, assieme ad altri leader della sinistra latinoamericana, l’idea di un mondo multipolare con una più intensa cooperazione economica e politica fra i Paesi dell’America Latina. Ha utilizzato parte significativa della gigantesca rendita petrolifera in favore dei ceti più disagiati, contribuendo a ridare dignità e diritti anche ai gruppi etnici più marginali, come i venezuelani di origine africana e le donne. Sono stati ottenuti significativi successi sul piano della riduzione della povertà e dell’alfabetizzazione, come anche nell’aumento, non tanto della qualità dell’istruzione secondaria quanto della platea dei beneficiari”, senza però che ciò si accompagnasse a politiche di sviluppo economico capaci di svincolare il Paese dalla dipendenza della rendita petrolifera e dai mercati internazionali.
La fase di sviluppo interno del Paese fu infatti favorita da un decennio di elevato prezzo del greggio sui mercati internazionali, che contribuì a gonfiare enormemente i bilanci del governo di Caracas ma anche, in prospettiva, a preparare le basi per il futuro dissesto, dettato dalla volatilità del contesto globale. Contrariamente a quanto fatto in diversi Paesi alleati del Venezuela, come Bolivia e Ecuador, né Chavez né Maduro hanno mai posto in essere alcun serio tentativo di diversificazione dell’economia.
Le responsabilità di Chavez e Maduro nel settore petrolifero
“Anche nel settore petrolifero”, scrive Garavini, “il governo chavista ha fatto degli errori madornali. Per esempio la nazionalizzazione di alcune società “di servizio” nel settore petrolifero ha portato ad una riduzione della produzione dai giacimenti di petrolio di migliore qualità, con una produzione complessiva che è passata da 3,3 milioni di barili al giorno nel 2009 a 2,7 nel 2015. Questa riduzione ha avuto conseguenze disastrose a partire nella seconda metà del 2014, quando i prezzi del petrolio si sono più che dimezzati, passando da una media di 100 ad una 50 dollari al barile. Il capitalismo rentistico venezuelano, già in difficoltà, è piombato immediatamente in un baratro ancora più profondo di quello degli Anni Ottanta”.
Nel 2014 Maduro era da poco salito al potere. Ma anche il successore di Chavez, per “vincere la crisi non ha saputo fare di meglio che ipotizzare nuove massicce iniezioni di rentismo con l’aiuto di privati e compagnie internazionali. Ne è un esempio il progetto AMO che riguarda investimenti nelle sabbie bituminosi e minerali vari nell’Orinoco. Per finanziare il disavanzo il Venezuela è passato da un debito di 37 miliardi di dollari nel 1998 a 123 nel 2016: tutti soldi che lo Stato è costretto a ripagare puntualmente, pena la confisca di carichi petroliferi e importanti investimenti all’estero come le raffinare CITGO”. Il recente braccio di ferro con Londra sull’oro venezuelano segnala la credibilità nulla dell’attuale regime di Caracas come operatore in campo finanziario.
Il Venezuela nel baratro
A vent’anni dall’avvio di quella che fu chiamata la “Rivoluzione Bolivariana” al Venezuela non restano nemmeno lacrime da piangere. L’incremento della criminalità e del numero di omicidi (oltre 26mila nel solo 2017) è una manifestazione dell’assenza quasi totale dello Stato in alcuni dei servizi fondamentali. Maduro cerca di arroccarsi con la vicinanza a Russia e Cina in campo geopolitico, ma deve al contempo fronteggiare le crescenti pressioni degli Stati Uniti di Trump e di un continente latinoamericano che va sempre più isolando Caracas.
Vent’anni fa, un’immensa manifestazione popolare nelle urne sancì l’ascesa di Chavez e l’inizio di un’era di speranze che ora appare lontana secoli. Due decenni dopo il trionfo del Comandante, il Venezuela governato dal suo epigono è sprofondato nel baratro, in un caos da cui non sembra esserci via d’uscita. Perché proprio il popolo, a cui Chavez e Maduro hanno sempre voluto appellarsi nella loro retorica, ha pagato più di chiunque altro il tracollo della nazione. E tra crisi economica, picchi di criminalità, assenza dello Stato ed emigrazione di massa va via via disfacendosi giorno dopo giorno.