“A chi dice che se agiremo contro l’Iran si arriverà al conflitto, rispondo che scoppierà un’orribile guerra nucleare se non lo faremo”. Un intervento storico quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che a marzo si è rivolto direttamente così per la prima volta al popolo iraniano in un’intervista al canale in lingua inglese Iran International evocando lo spettro dell’olocausto atomico.
Il rischio concreto di escalation
Ancora risuonavano le parole del premier Netanyahu e lo stesso messaggio veniva recapitato al capo del Pentagono Lloyd Austin in visita in Israele dal suo omologo israeliano mentre l’ambasciatore dell’Azerbaijan smentiva indiscrezioni secondo le quali il suo Paese avrebbe autorizzato l’utilizzo di una sua base per fornire supporto logistico agli aerei israeliani in un’eventuale missione contro Teheran. Distratto da una logorante guerra d’attrito in Ucraina, il mondo dell’informazione e l’opinione pubblica internazionale sembrano non aver ancora aperto gli occhi sulla prospettiva di un’imminente escalation nucleare in Medio Oriente. L’allarme più recente è stato lanciato a febbraio dal direttore della Cia William Burns per il quale all’Iran “bastano poche settimane per arrivare ad arricchire l’uranio al 90% e oltre”, un livello sufficiente per costruire un’arma atomica pur comunque “essendo molto lontano in termini di capacità di sviluppare un’arma”.
Nel frattempo un altro evento, il disgelo tra l’Arabia Saudita e l’Iran sotto la mediazione cinese, ha rubato la scena per diverse settimane a quanto avviene nell’est Europa. Tutto da confermare nei fatti e nei prossimi mesi, questo riavvicinamento è stato salutato dalle cancellerie occidentali in maniera positiva e persino la Casa Bianca ha fatto buon viso a cattivo gioco sottolineando la possibilità, in apparenza, di una distensione nell’area. Di diverso avviso è stata la reazione della politica israeliana ben sintetizzata dalla dichiarazione del capo dell’opposizione Yair Lapid, che ha definito l’accordo tra i due Paesi come “un totale e pericoloso fallimento del governo israeliano” e un “crollo del muro di difesa regionale che abbiamo cominciato a costruire contro l’Iran”. L’allusione è agli accordi di Abramo nei quali Netanyahu puntava ad integrare l’Arabia Saudita e che, secondo quanto riportato dal New York Times e dal Wall Street Journal alla vigilia dell’intesa firmata a Pechino, aveva già avanzato delle condizioni per una sua adesione.
Per una curiosa coincidenza Israele e Iran stanno affrontando dei momenti di grande agitazione sociale: il primo a causa della contestata riforma sulla giustizia che, seppur congelata, non ha impedito di arrivare alla diciassettesima settimana di proteste; il secondo per le rivolte seguite alla morte di Mahsa Amini, la ventiduenne deceduta mentre era sotto custodia della polizia morale per non aver indossato correttamente l’hijab.
I sommovimenti interni e la possibile sortita
La fragilità politica israeliana si riflette anche nella politica estera. Secondo indiscrezioni riportate dalla rete televisiva israeliana Channel 12, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti, avrebbe dichiarato una sospensione di qualsiasi collaborazione con Tel Aviv sino a quando Netanyahu non avrà ripreso il controllo del governo. Seppure queste voci siano state prontamente smentite da Netanyahu stesso, è evidente che l’esecutivo continua a proiettare un’immagine di grande instabilità.
Di qui si rafforza l’ipotesi che per rilanciare il suo governo, il premier israeliano possa decidere di chiudere definitivamente una partita con l’Iran dando via libera a un attacco preventivo agli impianti nucleari del Paese sciita. Sempre secondo Channel 12, di recente, Netanyahu avrebbe presieduto ad almeno cinque incontri con i massimi responsabili della sicurezza per discutere i dettagli di un possibile attacco e avrebbe informato di tali piani anche il segretario di Stato americano Anthony Blinken, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il presidente francese Emmanuel Macron.
Il ministro della difesa Yoav Gallant ha indicato una “linea rossa” dichiarando che non permetterà che venga superato il limite dell’arricchimento dell’uranio al 90%. È l’impianto di Fordow, vicino la città di Qom, che desta maggiore preoccupazione, una delle tre strutture di produzione nucleare, dove Teheran arricchisce le particelle di uranio fino all’87%.
Per Netanyahu quella contro il nucleare iraniano è quasi una questione personale. Non è la prima volta che il premier spinge sull’idea di intervenire contro il Paese degli ayatollah. L’ex premier e ministro della difesa Ehud Barak ha rivelato che Netanyahu ha infatti dovuto annullare dei piani di attacco già nel 2010 e nel 2011 e un’operazione simile è stata bocciata anche nel 2012 perché Israele era all’epoca impegnato in esercitazioni militari con gli americani e si voleva evitare un coinvolgimento diretto miliare di Washington contro Teheran. Nel 2010 fu il capo di Stato maggiore Gabi Ashkenazi a bloccare i piani militari in una riunione ristretta dicendo che le Tsahal (le forze di difesa israeliane) non erano pronte per l’operazione, raccogliendo l’appoggio di diversi ministri.
Sempre secondo quanto dichiarato da Barak, anche lui a favore di un attacco militare, nel 2011 il nuovo responsabile dell’esercito Benny Gantz diede invece il suo ok per l’operazione e la discussione arrivò a livello del “forum degli otto” ministri senior. In tale sede le presentazioni delle difficoltà, dei rischi e delle possibili perdite da parte del capo di Stato maggiore e il successivo intervento di Yuval Diskin, capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) portarono ad un binario morto anche questo secondo tentativo.
Eliminare il programma nucleare iraniano
L’incubo nucleare è sempre stato al centro delle preoccupazioni d’Israele. L’aviazione israeliana è infatti già intervenuta nel giugno 1981 con l’operazione Babilonia bombardando il reattore di Osirak in Iraq e nel settembre 2007 con l’operazione Orchard distruggendo una centrale in costruzione ad al Kibar in Siria.
Tali precedenti impallidiscono di fronte alla complessità di un’operazione volta a fermare il programma nucleare iraniano. Molti dei potenziali obbiettivi sono distanti dalle basi israeliane tra i 1500 e i 1800 km, ma le forze di Tsahal avrebbero comunque fatto importanti progressi negli ultimi anni. Secondo il Jerusalem Post, gli F-35 israeliani potrebbero compiere l’attacco senza necessità di rifornimenti in volo e nel 2022 l’aviazione israeliana avrebbe condotto almeno quattro simulazioni di attacchi ad ampio raggio. La prima per testare il sistema radar e di allerta, quest’ultimo simile a quello che protegge le installazioni nucleari. Le altre simulazioni si sarebbero concentrate su missioni da combattimento in volo e sulle misure di difesa contro sistemi di attacco elettronici. Ad inizio anno Israele e Stati Uniti inoltre hanno condotto nel Mediterraneo orientale la più massiccia esercitazione militare congiunta.
Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia Atomica Rafael Grossi, in visita a Teheran, ha gettato acqua sul fuoco parlando di progressi e di “discussioni costruttive” sul dossier nucleare, ma questa volta sembra proprio che la resa dei conti possa essere solo questione di mesi se non di settimane e che un governo in preda ad una crisi senza precedenti potrebbe cercare di uscire dall’angolo puntando tutto sulla possibilità di un successo in politica estera. Un azzardo rischioso che rappresenterebbe l’apertura di un nuovo fronte dagli esiti imprevedibili e dalla posta troppo alta, non solo per Israele.