Il 25 gennaio ricorre il 12° anniversario della rivoluzione egiziana. Nata il 25 gennaio 2011 e conclusa il 11 febbraio 2011, la rivoluzione ha portato alla caduta del regime trentennale di Hosni Mubarak. Dopo dodici anni però, il Paese sta affrontando una gravissima crisi che tocca molti settori: da quello economico a quello alimentare, arrivando fino a quello istituzionale messo in discussione da gran parte della popolazione che in diverse occasioni ha mostrato tutto il suo malcontento. La crisi egiziana potrebbe portare alla rovina di Abdel Fattah al-Sisi e condizionare le sorti di altri Paesi dell’area MENA.

L’ascesa di al-Sisi, le politiche elitarie e la crisi

Dopo le dimissioni forzate di Mubarak, avvenute l’11 febbraio 2011, l’Egitto ha vissuto il suo primo periodo democratico con una serie di elezioni e referendum liberi eleggendo il suo primo presidente Mohamed Morsi, figura di spicco del partito dei Fratelli musulmani (Partito libertà e giustizia). Il governo Morsi è durato circa un anno fino al colpo di stato militare avvenuto il 3 luglio 2013. Da quel momento il suo ministro della difesa Abdel Fattah al-Sisi ha guidato la nazione facendola scivolare verso un regime autocratico. Durante questi dieci anni è stato protagonista di politiche ritenute antidemocratiche e repressive, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani, la libertà di stampa e di associazione. Basti pensare che al momento sono 24 i giornalisti incarcerati e centinaia di attivisti hanno vissuto la stessa sorte.

L’Egitto di al-Sisi ha ricevuto sovvenzioni e aiuti milionari dai Paesi del Golfo, primi tra tutti Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, e dal Fondo monetario arabo e la Banca africana di sviluppo. I fondi arrivati sono però stati spesi in progetti che poco hanno a che vedere con l’aiuto alla popolazione: strade, palazzi presidenziali e un jumbo jet presidenziale di 500 milioni di dollari. Nel 2016 è inoltre iniziata la costruzione di una nuova città che dovrebbe diventare, secondo i piani del regime, la nuova capitale amministrativa. Il progetto prevede la costruzione del grattacielo più alto d’Africa e un’enorme moschea, tutto finanziato dallo stato per 50 miliardi di dollari. I soldi investiti in questi mega progetti sono solo una fetta di quelli che dovrebbero essere spesi per risanare il debito pubblico.

La bozza di bilancio per l’anno 2022/2023 presentata dal governo, prevede una spesa complessiva di 2.71 trilioni di lire egiziane, quasi 150 miliardi di dollari. Il provvedimento include un aumento del 42% dei prestiti previsti e il Fondo monetario internazionale ha esteso al Paese un prestito di 3 miliardi di dollari, il quarto pacchetto di aiuti in sei anni. Nel frattempo la lira egiziana si è svalutata a circa 29 sterline rispetto al dollaro americano. L’indebolimento della valuta ha portato a un vertiginoso aumento dei prezzi delle importazioni con conseguente inflazione salita al 20%. Nella nazione più popolosa del mondo arabo il cibo è diventato il bene più difficile da acquistare. La maggior parte della popolazione non può più permettersi la carne: il prezzo del pollame è passato dalle 30 sterline egiziane (1,9 dollari) al kg a 70 sterline (2,36 dollari). Se il governo di al-Sisi non spenderà quanto dovuto per risanare il debito e stabilizzare la galoppante inflazione l’Egitto potrebbe sprofondare nel default.

Segni premonitori di una possibile rivolta (non solo egiziana)

In recenti discorsi pubblici, al-Sisi ha fatto cenno ai presunti sforzi straordinari che il governo ha messo in atto per far fronte alla crisi e salvare l’Egitto da un’imminente catastrofe. Il mese scorso ha dichiarato che i problemi del Paese risalgono a molto tempo prima della sua ascesa, spostando così la responsabilità sui precedenti presidenti. Interessanti sono stati però i commenti fatti durante la Cop27 – tenutasi proprio in Egitto – riguardo alla rivoluzione del 2011. Questi sono stati molto critici e si sono allontanati dai precedenti discorsi che la sublimavano come la “gloriosa rivoluzione“. Al contrario il presidente ha messo in guardia gli egiziani da nuove proteste le quali potrebbero portare l’Egitto al collasso. Queste osservazioni lasciano intendere che c’è una reale preoccupazione da parte del governo di una possibile rivolta dettata dalla fame, proprio come quella del 2011.

Come già accennato, la crisi da Covid-19 e la guerra in Ucraina, hanno complicato le condizioni di vita di altri Paesi dell’area, quali Tunisia e Giordania. Entrambe, come l’Egitto, attraversano le stesse problematiche e le proteste sono diventate sempre più consistenti. A 12 anni dalla Primavera araba sono numerosi gli analisti e i giornali che tengono gli occhi puntati su questa regione, che sembra attraversare lo stesso filo conduttore del 2011: crisi economica, fame, rivoluzione.

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