Proprio nei giorni in cui il mondo è col fiato sospeso per la crescente tensione in Ucraina orientale, e proprio mentre l’artiglieria pesante è tornata ad esplodere colpi continui sul fronte in Donbass, rischia di aprirsi nel cuore della Penisola Balcanica uno scenario di conflitto tra Russia e potenze occidentali dai contorni quasi identici.
Il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik è da tempo impegnato nell’applicazione di una linea politica volta ad ottenere una maggiore autonomia per l’etnia serba in Bosnia, e ad invertire anni di graduale centralizzazione che secondo Dodik sarebbe il frutto di un’imposizione della comunità internazionale e creerebbe solo disagi alla comunità serbo-bosniaca.
Secondo i leader regionali le iniziative di Dodik rischierebbero di riaccendere i nazionalismi e le rivalità etniche nell’intera regione dei Balcani occidentali e di farla ripiombare nella violenza. Il piano di Dodik, in caso di fallimento dei colloqui con le autorità centrali della Bosnia, potrebbe essere persino quello di spingere la Republika Srpska (RS), una delle due entità a base etnica che compongono la Bosnia, verso la secessione.
Pur dichiarando di voler a tutti i costi evitare l’uso della violenza, Dodik, un ex politico di centro-sinistra dagli accenti sempre più nazionalisti, ha dichiarato al Financial Times: “Non credo che dovremmo essere presi alla leggera. Siamo pienamente convinti di avere ragione. Non voglio una guerra. Non è la nostra agenda”. Notevole come le argomentazioni siano molto familiari a quelle che tengono banco da settimane nello scontro tra Washington e Mosca con al centro l’Ucraina di Volodymyr Zelenskyj.
Le entità della Bosnia, la Republika Srpska e la Federazione Bosniaco-Croata, sono state stabilite dall’accordo di Dayton del 1995 che mise fine alle guerre degli anni ’90 dopo la dissoluzione della Jugoslavia. Lo scorso dicembre, i legislatori del parlamento regionale serbo di Banja Luka (la capitale amministrativa della RS) hanno gettato nel panico le potenze occidentali votando dei provvedimenti per la separazione dell’autorità fiscale, della magistratura e delle forze armate della RS dalla Bosnia.
Pur non trattandosi di un voto vincolante, gli oppositori l’hanno considerato un passo avanti nell’agenda di Dodik verso la secessione da Sarajevo, riaccendendo così i timori tra i leader regionali e tra i diplomatici di un collasso dell’accordo di Dayton e di un possibile effetto domino capace di ridiffondere le violenze nei Balcani occidentali.
Per tutta risposta, gli Stati Uniti hanno immediatamente imposto sanzioni a Dodik. “Le azioni di Dodik minacciano la stabilità, la sovranità e l’integrità territoriale della Bosnia e minano gli accordi di pace di Dayton, rischiando così una più ampia instabilità regionale”, ha detto il Dipartimento del Tesoro USA annunciando l’introduzione delle misure già a partire da gennaio 2022.
Il membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina ha respinto tutte le accuse ed ha esposto la sua visione del Paese come una federazione “liquida” con un’ampia autonomia regionale, ribadendo che la secessione non faccia parte della sua agenda. La Bosnia, secondo Dodik, dovrebbe mantenere i confini etnici stabiliti da Dayton, e l’ampia autonomia che ne sono scaturiti nei confronti dei tre gruppi principali del paese: bosniaci musulmani, croati cattolici e serbi ortodossi. Tuttavia, nel corso degli anni l’equilibrio di potere secondo i serbi si sarebbe spostato a livello statale conferendo ai bosniaci, il gruppo più numeroso in Bosnia, una maggiore influenza. In base agli accordi di Dayton, Dodik sostiene che Banja Luka debba controllare i beni demaniali e che l’accordo originale non abbia conferito a Sarajevo poteri su questioni militari, giudiziarie o fiscali.
La Bosnia moderna, è bene ricordarlo, è davvero un incubo amministrativo: i presidenti sono di fatto cinque, i deputati sono centinaia, i ministri sono decine, i diversi livelli di governo sono ben 14 (incredibile, visto che tutto il Paese conta gli stessi abitanti della provincia di Roma). In più, oltre alle miriadi di cariche, ci sono delle precise “quote etniche” da rispettare in ogni apparato. Una rete di competenze che rende di fatto impossibile la gestione di molti dossier, come quello dei migranti della Rotta balcanica.
Anche per evitare le degenerazioni e superare le divisioni, Dodik è stato all’inizio ampiamente sostenuto dall’Occidente. Ha ricoperto per due mandati il ruolo di premier della Repubblica Serba tra il 1998 e il 2010. Poi è diventato il presidente dell’entità. Dal 2018 è il rappresentante serbo nella presidenza nazionale a tre della Bosnia.
Negli ultimi anni però, il suo nazionalismo, i suoi legami molto stretti con la Russia di Vladimir Putin, le accuse di corruzione, hanno inasprito non poco le relazioni con la Nato e tutto l’Occidente. Basta leggere alcune sue recenti dichiarazioni per farsi un’idea: “Ho simpatia per la Russia che crede che la sua sicurezza sia inviolabile e che dovrebbe essere protetta”. Oppure: “La Nato ha bombardato due volte i serbi senza l’appoggio del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU, NdR]. Tutto ciò ha plasmato il sentimento collettivo dei serbi. Non è giusto aspettarsi che i serbi simpatizzino con coloro che hanno sganciato bombe su di noi”.
La parabola di avvicinamento di Dodik verso il Cremlino ha raggiunto l’apice proprio lo scorso dicembre, quando il leader serbo incontrò Vladimir Putin a Mosca, pur mantenendo un profilo molto basso circa le azioni da intraprendere: “Putin non mi ha mai detto che avrei dovuto fare qualcosa [e] ha sempre detto di rispettare l’accordo di Dayton”, ha confessato Dodik. Ma il rapporto con Mosca è nei fatti sempre più stretto, e tanto basta per Stati Uniti e Unione Europea per considerare “poco gradita” la sua figura, aprendo una nuova, ennesima spaccatura anche all’interno della stessa Ue. Perché mentre l’Occidente ha spesso ignorato le rimostranze serbo-bosniache sui pericoli dell’istituzione di società multietniche e sulla limitazione dell’influenza esterna in Bosnia, non solo Putin, ma anche il premier ungherese Viktor Orbán le hanno abbracciate in toto.
Nel suo discorso sullo stato della nazione dello scorso fine settimana, Orbán ha criticato “l’arroganza delle superpotenze” nei Balcani occidentali e ha detto che l’Ungheria non sosterrà l’UE se dovesse imporre imporre sanzioni contro i serbi di Bosnia.
“Non accetteremo le decisioni di Bruxelles che sono contro gli interessi dell’Ungheria. Poiché l’Ungheria ha interesse nella pace, nello sviluppo economico e nell’inclusione della regione nell’UE, non si può parlare di sanzioni e politiche punitive”.
La posizione di Orbán è stata però completamente ignorata da Bruxelles, visto che il Parlamento europeo ha approvato ieri un emendamento che chiede di applicare le sanzioni contro Dodik.
Oggi, in risposta al voto del Parlamento Ue, la Republika Srpska ha inviato una lettera alle istituzioni dell’Unione europea spiegando che le sue mozioni legali nell’Assemblea nazionale siano un modo per preservare, anziché minacciare, gli accordi di Dayton. I media della RS hanno diffuso un documento intitolato “Tutte le azioni al vaglio della Republika Srpska rispettano gli accordi di Dayton”, con lo scopo di influenzare il Consiglio “Affari esteri” del prossimo 21 febbraio, in cui, ovviamente, terrà banco il dossier-ucraino ma pure quello che a tutti gli effetti si sta articolando come un suo “fratello minore”.
Un passaggio del documento impressiona infatti per via del lessico utilizzato, identico a quello che circonda la questione ucraina: “La RS rispetta pienamente la Costituzione, la sovranità e l’integrità territoriale della BiH e coloro che criticano le mozioni fanno accuse isteriche”.
L’entità serba ribadisce la volontà di ricomporre le autorità che erano state affidate alla Bosnia Erzegovina a Dayton, tra cui la magistratura. Soprattutto la magistratura, visto che è stato quello il passo che ha messo in allarme la comunità internazionale.
La RS, sempre nel documento, accusa il più grande partito bosniaco del Paese, SDA, di voler continuamente bloccare le riforme attraverso il dialogo strutturato sulla giustizia, promuovendo istanze sponsorizzate dall’UE. Ma la versione diffusa da Banja Luka è che la Republika Srpska stia solo reclamando le sue competenza originali sancite dagli accordi di Dayton. In uno dei documenti allegati si legge: “Nel 2004, tuttavia, alcune potenze straniere sono riuscite a fare pressioni sulle Entità [l’altra è la Federazione, quella croato-bosniaca, NdR] affinché acconsentissero alla BiH di gestire i giudici e i procuratori delle Entità”.
La sezione E del documento affronta infine la vera questione: “Le sanzioni contro la RS sono controproducenti” e anzi “alienerebbero l’opinione pubblica della RS e rischierebbero di allontanare una delle due Entità della BiH dal cammino verso l’integrazione europea”.
Il piccolo Donbass, in cui per fortuna l’artiglieria ancora non ruggisce, è diventato ufficialmente un nuovo fronte politico-diplomatico.