La notizia è passata quasi inosservata, ma recentemente Russia e Cina hanno conquistato alle Nazioni Unite, con l’appoggio non secondario della Corea del Nord, una vittoria importante a scapito degli Stati Uniti sul tema del controllo statale e politico su Internet.

Approvando la risoluzione presentata dai tre Paesi sul cybercrimine (88 voti a favore, 58 contro, 34 astenuti) l’assemblea dell’Onu ha rafforzato la legittimità delle pretese di chi nel mondo chiede di mediare la natura globale della rete con la volontà di garantire ai Paesi voce in capitolo sul controllo del traffico dati entro i loro confini. Questa volontà di cui Pechino e Mosca sono state le maggiori interpreti negli ultimi anni ha rappresentato a lungo per Washington un vero e proprio anatema, in quanto in controtendenza rispetto alla retorica libertaria del web, all’interesse economico dei colossi del tech, in larga parte a stelle e strisce e, soprattutto, alla supremazia geopolitica garantita dal loro inserimento nella strategia globale statunitense.

La rete si è sempre configurata come sostanzialmente americana, e a questa eccezione pochi Paesi sono riusciti a opporre strategie alternative. Col “Great Firewall” la Cina ha costruito la versione più simile a un vero e proprio Internet di matrice nazionale che esista al mondo, riuscendo anche a imporre alle società straniere operanti nel Paese la condivisione dei dati, mentre Mosca sta testando RuNet, potenziale anticamera del distacco della Russia dal World wide web. La Corea del Nord gioca invece come attore autonomo e “cane sciolto”, puntando sugli hacker per difendersi in maniera asimmetrica sul piano cyber.

Come riporta Axios, la risoluzione riconosce “legittimità al concetto di sovranità” in campo informatico, approvando l’idea che i “governi chiudano l’accesso transfrontaliero ai dati” quando riconoscono “utilizzi criminali” di siti e reti internet, senza però riconoscere le fattispecie in cui applicarla in maniera ragionevole. Di fatto, però si tratta di un duro smacco per gli Stati Uniti, per i quali un Internet non vagliato da barriere nazionali è fonte di una rendita di posizione geopolitica. In primo luogo perché ne esalta la centralità; in secondo luogo perché alimenta la miniera di dati a cui attingono le numerose agenzie di intelligence; infine, perché riduce il potenziale rischio securitario associato alle reti.

Una diffusione del “sovranismo informatico” avrebbe come conseguenza l’erosione di tutti questi fattori di primaria rilevanza, in una fase in cui la Cina esercita la massima pressione nei settori tecnologici di frontiera, conduce la corsa nel 5G, è probabilmente avanti nell’intelligenza artificiale e nelle sue applicazioni pratiche e compete, nonostante il recente punto segnato da Google, anche nella corsa al supercomputer quantistico. La corsa alle infrastrutture e alle applicazioni d’ultima generazione della rete è parallela alla competizione per il controllo della rete stessa, versione immateriale dell’egemonia americana.

“La perdita della leadership statunitense su Internet potrebbe essere un sintomo della maggiore rinuncia degli Stati Uniti alla leadership globale in favore di paesi come Cina e Russia, che stanno espandendo le loro sfere di influenza in Africa e in Medio Oriente, proprio mentre gli Stati Uniti stanno abbandonando quelle regioni”, ha concluso Axios il suo commento alla vicenda. Nell’era del tutti contro tutti, la sovranità va esercitata prima ancora che decantata. E l’amministrazione sovranista Usa rischia di subire un durissimo smacco dalla legittimazione di un sovranismo tanto…immateriale quanto concreto.

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