Nel blocco di Visegrad sta rinascendo l’età comunale. Al nuovo “feudalesimo” instaurato dai governi di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, fatto di forte accento nazionalistico, difesa dei confini, tutela della sfera agricola e militare come baluardo di identità e formazione dell’individuo, i sindaci delle quattro rispettive capitali sognano di rifondare le città-Stato, realtà mercantili abitate da cittadini “orizzontali” con diritti di stampo più progressista e una maggiore partecipazione al governo, ponendoli (quasi) tutti su un piano di sostanziale parità.
Per riuscirci, Gergely Karacsony, sindaco di Budapest (membro del partito ecologista di sinistra “Dialogo per l’Ungheria”), il ceco Zdenek Hrib, primo cittadino di Praga (eletto nella lista del “Partito Pirata”), lo slovacco Matúš Vallo di Bratislava (civico sostenuto da moderati di centrodestra e centrosinistra) e il polacco Rafał Trzaskowski di Varsavia (del partito cristiano-democratico “Piattaforma Civica”) hanno firmato lo scorso dicembre nella capitale ungherese il “Patto delle città libere”.
Per comprendere le basi ideologiche di questa sorta di Visegrad parallela basti pensare che la scelta della sede per la firma non è stata affatto casuale.
Oltre ad essere tutti membri degli schieramenti opposti a quelli dei governi, su insistenza di Karacsony l’incontro simbolo è avvenuto nella sede dell’Università dell’Europa centrale, il cui fondatore è quel George Soros di fatto “bandito” dal premier Viktor Orban poiché considerato nemico delle tradizioni e della cultura mitteleuropea. Orban ha provato in tutti i modi a spingere altrove l’Ateneo, ma Karacsony, al contrario, ha sin da subito solidarizzato col rettore Michael Ignatieff affinché tenesse aperta l’Università implementando, se possibile, il numero dei corsi.
Ufficialmente, comunque, i motivi sono altri. Nel testo si legge: “Noi sindaci di Bratislava, Budapest, Praga e Varsavia ci impegniamo a proteggere e promuovere i nostri valori comuni di libertà, dignità umana, democrazia, uguaglianza, stato di diritto, giustizia sociale, tolleranza e diversità culturale”. I primi cittadini si sono dunque impegnati a mettere a sistema tra loro le buone pratiche di gestione amministrativa e urbana in ambiti come la sostenibilità, la difesa dell’ambiente, l’inclusione sociale, l’edilizia urbana, i trasporti etc. Ma il messaggio, nemmeno tanto velato, rivolto a Bruxelles è: “Date a noi direttamente i fondi e combatteremo il populismo di destra“.
I primi ministri dei Paesi europei sono tenuti sin da ora a coinvolgere le autorità urbane e le altre autorità pubbliche nella preparazione dei cosiddetti accordi di partenariato con la Commissione europea (i documenti che stabiliscono come il paese investirà i propri fondi europei per lo sviluppo), ma chiaramente Bruxelles può fare ben poco per evitare che un governo nazionale trascuri le preferenze di spesa dei sindaci dell’opposizione.
Se però, come sperano i sindaci, dall’Ue dovessero trovare il modo di far arrivare, attraverso fini operazioni di lobbying, finanziamenti nelle casse delle Capitali anziché in quelle dei governi centrali, avrebbero modo di contrastare dall’interno molte delle derive politiche che hanno creato a vario titolo fratture tra l’Europa e i Paesi di VisegrAd. Potrebbe essere la carotina giusta con cui ingolosire il coniglietto di Bruxelles a saltare fuori dal cilindro.
Il “prezzo” da pagare per assoldare questi cavalieri dell’europeismo? Mille miliardi di euro totali.
Per motivare le singole iniziative ogni sindaco ha puntato sul contesto interno del proprio Paese. Detto dell’Ungheria “illiberale” di Orbán, Hřib ha invece fatto riferimento a un audit dell’Ue sui sussidi ricevuti nel 2015 da una società di proprietà del primo ministro Andrej Babiš, il “Donald Trump ceco” che però governa con l’appoggio esterno dei comunisti (e in Europa sta con i liberali di Alde).
Matúš Vallo invece, che ha detto di considerare le quattro capitali come “isole di democrazia”, sostiene che le Capitali siano capaci di mantenere la più alta concentrazione di diversità, sociale, religiosa, politica ed etnica e debbano vivere in base a criteri di tolleranza e apertura.
Ma è il caso polacco che, forse più di tutti, ritrae alla perfezione il contrasto politico-sociale tra la Visegrád reale e quella “parallela”.
Trzaskowski, che contro tutti i sondaggi ha sfiorato la vittoria alle scorse elezioni presidenziali contro Andrzej Duda, è riuscito a battere l’avversario in sede di ballottaggio in ben 26 delle prime 30 città della Polonia. Eppure, alla fine ha perso.
La narrazione fortemente conservatrice di Duda, basata sulla tutela dell’identità, su un’immigrazione controllata e selezionata soprattutto in Ucraina, Bielorussia e Comunità degli Stati Indipendenti, su un welfare volto alla redistribuzione della ricchezza nelle campagne e agli incentivi alla natalità (molto apprezzato il programma 500+, che paga alle famiglie 115 euro al mese per ogni bambino) è risultata vincente, e deve far riflettere molto sulla reale conformazione socio-culturale del blocco dell’Europa centrale.
Se da un lato infatti i sindaci sostengono, a ragione, che lo sviluppo del blocco di Visegrad sia direttamente proporzionale alla crescita delle Capitali, dall’altro le aree rurali, oltre ad essere sempre più disabitate, sono addirittura più povere di prima. Le politiche pro-mercato che hanno fatto seguito alla fine del comunismo senza un reale passaggio di consegne, hanno permesso difatti al Pil pro capite di schizzare in alto, ma alla ricchezza di finire nelle mani dei pochi, aumentando le disuguaglianze e quindi anche il malcontento. Il tutto, poi, viene condito dalla voglia delle famiglie di “difendere i valori cristiani”, radicatissimi specie in Polonia e Ungheria, dall’avanzata delle istanze Lgbt e dall’atteggiamento delle élite liberal delle città cosmopolite che non perdono occasione per disprezzare i “retrogradi” delle campagne. Come un po’ in tutto il mondo, del resto, i nuovi aristocratici finiscono per odiare ciò che di fatto non riescono più a comprendere.
La sfida della destra di Visegrád, dunque, che a ben guardare è più una battaglia di civiltà, consiste nel puntellare la presenza al di fuori delle città, ripopolare le campagne e incentivare la natalità.
Così, se per Hřib l’apertura di canali finanziari indipendenti per affrontare le sfide delle città sarebbe l’unica ricetta giusta per combattere il populismo nella regione, i governi centrali potrebbero addirittura rafforzarsi qualora riuscissero a convincere i popoli del ruolo antagonista dei sindaci urbani liberali che incanalano i preziosi fondi Ue verso aree relativamente ricche. C’è anche una terza via, ben più estrema. Queste fratture tra campagne e città potrebbero portare a sollevazioni di carattere populista anche negli ambienti liberal, che finirebbero per avanzare istanze autonomiste o addirittura indipendentiste. Come già succede in diverse parti d’Europa e come potrebbe accadere anche in una Regione che, tra dominazioni straniere di vario tipo, retaggi totalitari e disuguaglianze sociali, presenta al suo interno culture, modi di vivere, sensi d’appartenenza e aspirazioni molto diverse tra loro.