Nove maggio è la data, День Победы (Giorno della Vittoria) è il nome e la Piazza Rossa è il luogo. È dal 1945 che, salvo alcune eccezioni, ogni anno il popolo russo si riunisce en masse per commemorare la fine della seconda guerra mondiale, o meglio della Grande Guerra Patriottica (Вели́кая Оте́чественная война́), assistendo con fare festante alle marce dei carri armati, degli armamenti, dei militari e dei veterani.
Il 9/5 è sentito e vissuto da chiunque, è un reale momento di cordoglio collettivo e di patriottismo genuino e unificante, perché non v’è russo che non abbia un antenato caduto tra Stalingrado e Berlino nel tentativo di sconfiggere il nazismo. Lo sforzo umano dell’Unione Sovietica, del resto, fu immane: fra i ventisette e i quaranta milioni di morti, tra civili e militari, cioè più del 15% della popolazione totale dell’epoca. Nessun’altra potenza ha sacrificato tante vite sull’altare della Liberazione.
È in errore, dunque, chi parla e scrive di 9/5 in termini di politicizzazione recente da parte del Cremlino, perché il processo di mitizzazione della Grande Guerra Patriottica è partito dal basso e da lontano, nell’immediato dopoguerra, e dalla classe dirigente, più che politicizzato, è stato istituzionalizzato, incastonato nei libri di storia e saldamente impiombato nell’identità nazionale. Vladimir Putin, in sintesi, non ha costruito nulla di nuovo: sta attingendo al legato dei predecessori con il duplice obiettivo di salvarlo dall’erosione del tempo e di reinvestirlo dell’antico ruolo di collante nazionale.
Fede e tradizione nella Russia di oggi (e domani)
Al longevo presidente Vladimir Putin può essere imputata una sola responsabilità in relazione alla Grande Guerra Patriottica: l’aver lavorato affinché la tradizione del 9/5 non diventasse oggetto di banalizzazione e affinché la sua memoria non sbiadisse a causa dello scorrere ineluttabile del tempo e del graduale passaggio a miglior vita dei veterani. Una missione che, i tassi di partecipazione lo dimostrano, è stata portata a compimento con successo.
Inattuabile il panslavismo, limitatamente utilizzabile il neozarismo e anacronistico il comunismo, il Cremlino ha trovato nella rivitalizzazione del mito della Grande Guerra Patriottica, nell’eurasiatismo, nel conservatorismo e nelle fedi, le pietre angolari dell’identità della Russia postsovietica. Un’identità forte e marcata, nitente come una stella polare, che dovrebbe aiutare la nazione ad affrontare le sfide del nuovo secolo e, soprattutto, ad orientarsi nel dopo-Putin.
Sondaggi, tendenze culturali e partecipazione popolare ai grandi appuntamenti patriottici indicano, anzi corroborano, che il grande ed ambizioso programma di rinazionalizzazione delle masse dell’era Putin – basato sulla creazione di un ambiente permeato di patriottismo, dall’informazione ai curricoli accademici, passando per i parchi e le chiese – sta avendo successo:
- Una recentissima indagine del centro Levada, intitolata “La Russia e l’Europa”, ha concluso che meno di un russo su tre (29%) ritiene che la Russia sia un Paese europeo – in diminuzione rispetto al 52% del 2008 –, che due russi su tre (70%) non si considerano europei in termini di identità – in aumento rispetto al 52% del 2008 –, che vanno riducendosi gli affezionati all’Occidente – dal 41% del 2017 al 30% del 2021 – e che soltanto il 23% dei membri delle fasce d’età 18–24 e 25–39 crede nell’europeità dei russi e della Russia;
- Un’inchiesta sulle convinzioni degli studenti targata Mikhailov & Partners, e risalente al 2019, ha appurato come la maggioranza consideri la Cina il partner più amichevole della Russia (davanti a Bielorussia e Kazakistan) e gli Stati Uniti la nazione più ostile (seguiti da Ucraina e Germania), come Putin venga ritenuto il personaggio evocante più “simpatia e rispetto” e come il 62% si ritenga un patriota;
- Una ricerca del centro Levada del 2018, centrata sul ritorno in auge del culto di Stalin, ha catturato una tendenza significativa: l’era della demonizzazione sembra essere terminata, perché aumenterebbero su base annua i simpatizzanti del defunto leader e diminuirebbero coloro che lo ritengono colpevole di gravi crimini – dal 62% del 2016 al 44% del 2018;
- Raddoppiati i partecipanti alla “marcia virtuale” del Reggimento immortale dal 2020 al 2021, il cui numero è aumentato da due milioni e 500mila a quasi cinque milioni;
Il futuro dell’identità russa
Il futuro della Russia post-putiniana potrebbe essere una fotografia del passato: Mosca a metà tra Terza Roma e Seconda Mecca, né Europa né Asia – ma unicamente Eurasia –, katéchon conservatore ed autocratico in lotta contro il liberalismo di stampo occidentale e casa di una riedizione in salsa contemporanea della trinità nicolina “Ortodossia, Autocrazia, Nazionalità” (Правосла́вие, Cамодержа́вие, Hаро́дность) – con un’ortodossia affiancata da islam ed ebraismo e crescentemente nazionale e nazionalista, come emblematizzano la vicinanza tra Cremlino e Patriarcato di Mosca, opere come la cattedrale principale delle forze armate e il Natale patriottico di Lipno.
È nella direzione di un futuro orientato al passato che la Russia continuerà a camminare oggi e negli anni a venire. Perché un passato agglomerante il meglio delle epoche imperiale e sovietica sembra essere l’unica via percorribile dalla nazione, la cui dirigenza e il cui popolo anelano a riavere il posto nel mondo che credono spetti legittimamente alla Russia. Quel posto, occorre ricordarlo ai digiuni di storia, non potrà che essere a metà fra Occidente e Oriente, fra rincorsa della modernità europea e richiamo identitario di forze ancestrali asiatiche, perché la Russia è nella posizione unica di non essere né Europa né Asia, ma Eurasia, e, oggi più che in passato, sia l’élite che le masse sembrano sentire e volere come proprio tale destino.