Il quartetto di Visegrad esiste ormai solo sulla carta come strumento di pressione politica all’interno dell’Unione Europea. Lo scoppio del conflitto in Ucraina, le manovre di Bruxelles e della Nato al confine orientale e contro la Russia, l’ascesa di nuovi punti di riferimento regionali e le differenze tra i leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria hanno di fatto contribuito a cambiare le carte in tavola.

La guerra che spacca Visegrad

La guerra torna in Europa e si relativizza lo scontro tra i governi sovranisti dell’Est e Bruxelles; si rinnova il riflesso atlantico di Paesi come Polonia e Slovacchia e come nel 2003 con l’Iraq è l’Europa orientale a sostenere maggiormente l’asse Usa-Regno Unito nel rafforzamento e nell’implementazione della stratregia della Nato.

Ciò fa venire però a galla le grandi divergenze tra i vari Paesi: Stati come la Polonia sono, assieme ai tre baltici e alla Romania, bastioni atlantici a Est; l’Ungheria di Viktor Orban si dichiara contraria all’escalation; la Repubblica Ceca non raggiunge i livelli di furore bellicista di Varsavia ma, ricorda l’Huffington Post“ha lanciato una nuova campagna” di difesa del Paese con un sito apposito (branmecesko.cz) avente “l’obiettivo di contrastare la diffusione della propaganda russa: sul sito vengono analizzate le sei più accreditate “menzogne” diffuse dal Cremlino e si invitano i cittadini a un uso consapevole dei social media. Nell’elenco delle associazioni impegnate nella lotta alla propaganda, oltre al “Centro contro il terrorismo e le minacce ibride”, struttura del ministero degli interni, ne vengono elencate ben sedici non governative”. La Slovacchia, infine, ha approfittato della campagna di invio armi a Kiev per mandare le sue batterie  S-300 all’Ucraina con l’obiettivo di ricevere in cambio efficaci missili americani.

A far scalpore è soprattutto la frattura tra Polonia e Ungheria. La quale appare un vero e proprio bivio per la “Nuova Europa” di Visegrad, a lungo egemonizzata dai governi sovranisti. Le traiettorie di Budapest e Varsavia hanno, a partire dall’Ucraina, preso direzioni divergenti.

La frattura tra Polonia e Ungheria

Varsavia vuole a tutti i costi la sconfitta militare di Vladimir Putin in Ucraina, Budapest invece punta alla distensione. La Polonia dei catto-conservastori di Diritto e Giustizia non solo è allineata all’asse Washington-Londra, ma è riuscita addirittura a trasmettergli parte del suo furor bellicista. Viktor Orban e Fidesz, invece, hanno vinto a valanga le elezioni di aprile puntando sull’obiettivo di tenere l’Ungheria fuori dal conflitto. La Polonia è stata colpita dallo stop delle forniture di gas russo da diverse settimane, l’Ungheria è invece pronta a pagare le forniture in rubli. Il vicepremier e regista della politica polacca Jarosalw Kaczynski ha, assieme al primo ministro Mateusz Morawiecki, organizzato visite a Kiev per incontrare Volodymyr Zelensky, mentre Orban ha rivangato al governo ucraino la legge che imponeva l’insegnamento della lingua ucraina su tutto il territorio nazionale e la sospensione di quello degli idiomi delle minoranze etniche nelle scuole secondarie, ritenuta pregiudizievole per i 150mila magiari della Transcarpazia. Joe Biden ha scelto Varsavia per affondare duramente su Vladimir Putin, l’Ungheria invece su gas e sanzioni ha cercato una sotterranea sponda europea con la Germania. Ciononostante, Bruxelles sembra più pronta a rivalutare Varsavia, pensando addirittura a scorciatoie sulle procedure di infrazione, mentre a Budapest viene rinfacciato il suo ostruzionismo.

Parlare di Polonia e Ungheria oggi significa parlare di mondi separati e che non si direbbe in grado di riconquistare le affinità elettive che a lungo le hanno unite. L’accelerato ritorno della storia in Europa ha reso l’Est nuovamente faglia, trincea, limes. Ha diviso il richiamo europeo da quello atlantico e soprattutto risvegliato nei popoli richiami atavici. In Polonia, così come a Praga, la Russia è identificata come una minaccia profonda, nella narrazione di Orban invece i fatti del 1956 e la Rivoluzione ungherese non sono decisivi per una pedagogia nazionale fondata, piuttosto, sul conflitto valoriale e identitario. La guerra russa in Ucraina è uno spartiacque per la relazione tra due Paesi capaci negli ultimi anni di conquistare posizioni di forza e influenza aggregando attorno al loro asse i Paesi di Visegrad e sviluppando la narrazione di una terza Europa dopo quella carolingia e quella mediterranea. Il dettame geopolitico, però, chiama le due nazioni a diverse strategie. C’è di mezzo il rapporto con la Russia, ma anche quello con Washington e il Paese chiave d’Europa, la Germania. E così la Polonia punta sugli Stati Uniti come partner imprescindibile, mentre il conservatore Orban fa asse con il tedesco socialdemocratico Scholz contro l’embargo energetico alla Russia. La Polonia vuole spezzare ogni possibilità di ricomposizione della GeRussia, l’Ungheria sogna (ma non ammette esplicitamente) salvarne le fondamenta.

Senza il motore Budapest-Varsavia, Visegrad è zoppo: e questo lo si era notato già prima della guerra. Fonte di un “tana libera tutti” che è partito dai Paesi più distanti dal duo simbolico dell’Est, Repubblica Ceca e Slovacchia.

Una cooperazione indebolita

Fino allo scoppio della guerra rotture  simili consumatesi alla luce del solo erano però impensabili. Ma dall’elezione del leader del partito europeista ceco Ods, Petr Fiala, insediatosi a dicembre come premier a Praga, una divisone particolare in Visegrad covava sotto le ceneri. In Repubblica Ceca Orbán aveva sponsorizzato l’ex premier Andrej Babiš, mentre la Slovacchia del premier moderato Eduard Heger aveva trovato sponda nell’elezione di Fiala.

A dividere i Paesi di Visegrad erano gli approcci sulla campagna energetica riguardante il gas russo, il futuro dei fondi strutturali del Recovery e soprattutto la questione sullo Stato di diritto, culminata nella decisione della Corte costituzionale polacca secondo la quale il diritto nazionale sarebbe preordinato a quello comunitario. E in generale Polonia e Ungheria avevano nel corso degli anni promosso importanti riforme della giustizia, del diritto in materia di libertà individuali, dell’informazione e dei diritti delle minoranze che secondo Bruxelles contrastavano i princìpi dello stato di diritto su cui si fonda l’Unione. Praga e Bratislava hanno condannato, pur senza troppa enfasi, le mosse degli alleati.

La guerra in Ucraina ha offerto alla Polonia il gancio per “redimere” queste colpe a prezzo di un sacrificio importante come quello della relazione speciale con l’Ungheria. Vista ormai come sovrastruttura senza contenuto in un quadro geopolitico mutato. Perché Visegrad non è più frontiera, le narrazioni sull’Europa sono cambiate e, soprattutto, è ritornato il peso del vincolo atlantico. Mentre in prospettiva con l’allargamento dell’Alleanza e dell’Ue i confini dei due gruppi si sposteranno sul altri fronti. Il conflitto sancisce ciò che era atteso da tempo: lo squagliamento del principale gruppo di pressione esteuropeo. Ma ciò avviene con fragore e alla luce del sole, non per “morte naturale”. Sbaglia chi, da europeista convinto, ritiene che questo possa giocare a favore dell’integrazione comunitaria. Una conflittualità politica a Est e la perdita di un gruppo coeso ma a suo modo prevedibile nelle mosse come Visegrad, la spaccatura con l’Ungheria spinta sempre più all’irrigidimento e le conseguenze imprevedibili sul piano del sostegno all’Ucraina e dei rapporti con la Russia sfilacciano ulteriormente l’Unione. E chi ride è Washington, vincitrice del divide et impera europeo che ha a Est bastioni fedeli più agli Usa che a Bruxelles, con in testa una Polonia capace di diventare negli anni la vera antemurale alla Russia.





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