C’è il petrolio, ma l’elettricità viene erogata in estate soltanto per dieci ore al giorno: ecco Kirkuk, importante città irachena letteralmente poggiata sull’oro nero che però, specialmente negli ultimi anni, vede sparire giorno dopo giorno ogni tratto di normale quotidianità. Nei giorni scorsi la giornalista bulgara di Al Jazeera Mariya Petkova, è stata proprio in questa città per raccogliere testimonianze e capire i paradossi in cui si vive in questa provincia del nord dell’Iraq. La situazione appare molto grave, persino i danni di un Isis piazzato per tre anni a ridosso di Kirkuk sembrano minori. Non solo dunque il sud dell’Iraq, caduto drammaticamente tra miseria e proteste come si è descritto poche settimane fa anche in questa testata, ma pure il nord del paese appare stretto nella morsa di una situazione sempre più allo stremo.
Kirkuk rivendicata da tre etnie
Il problema parte sempre dalla base: è vero che in questa provincia vi è uno dei giacimenti di petrolio più importanti dell’Iraq, ma è altrettanto vero che Kirkuk è da sempre crocevia importante in una zona del paese dove convergono diverse etnie. La città e la provincia sono abitate da arabi, ma anche da curdi e da turcomanni. La ricchezza del sottosuolo di Kirkuk aumenta le rivendicazioni da tutte e tre le entità che la compongono: avere esclusività nel governo di questo territorio, implica l’accesso alle tante risorse di cui dispone e soprattutto ai giacimenti di oro nero. I curdi rivendicano Kirkuk già dai tempi di Saddam Hussein. Quando il rais è stato deposto, il governo autonomo di Erbil inizia a pretendere che la nuova regione autonoma curda comprenda anche la provincia di Kirkuk. Ovviamente questo da Baghdad non viene accettato, la città ed il territorio circostante rimangono al governo centrale.
Non è un caso che da queste parti non si vota per il rinnovo del locale consiglio provinciale dal 2005: curdi ed arabi non riescono da più di dieci anni a mettersi d’accordo sullo status definitivo di Kirkuk. Poi nel 2014 arriva lo Stato Islamico, il quale imperversa nella vicina Mosul e minaccia le aree curde. L’esercito iracheno, allo sbando in tutto il nord dell’Iraq, lascia Kirkuk che viene quindi occupata dai Peshmerga curdi. Si assiste ad un’annessione de facto di Kirkuk all’interno della regione autonoma curda. Ed il petrolio inizia ad essere estratto con molta più regolarità, con il governo federale iracheno che accusa i curdi di venderlo direttamente ai turchi.
Sconfitto l’Isis, l’esercito di Baghdad punta nuovamente a riprendere in mano questa strategica provincia e vi riesce sparando pochi colpi. Nell’ottobre del 2017 bastano alcuni giorni per cacciare i peshmerga e tornare a far sventolare la bandiera irachena nelle sedi istituzionali. Ma la questione è tutt’altro che risolta: non c’è accordo con curdi e turcomanni, esistono tensioni tra i vari rappresentanti politici delle tre comunità e questo, tra le altre cose, non permette nemmeno la riapertura dei campi di estrazione petrolifera. Questi ultimi infatti vengono chiusi quando l’esercito federale riprende in mano la provincia proprio per l’accusa mossa al governo di Erbil di vendere, tramite un gasdotto, il petrolio ai turchi senza passare tra i meandri della burocrazia e del bilancio di Baghdad. I turcomanni, dal canto loro, rivendicano maggiore attenzione ed una condivisione della gestione del potere a Kirkuk. Solo proposte per adesso, si aspetta l’insediamento dei nuovi governi sia ad Erbil che a Baghdad per capire se qualcosa possa o meno smuoversi. Nel frattempo tutto rimane bloccato: economia, petrolio e vita quotidiana.
La drammatica situazione umanitaria
Nel reportage sopra menzionato di Mariya Petkova, ben si evidenzia la situazione: più ci si avvicina a Kirkuk, si legge, più si incontrano camion che trasportano petrolio, piccole raffinerie sparse lungo l’autostrada che sale da Baghdad, così come benzinai e persino piccole bancherelle dove il greggio viene venduto in contenitori di plastica. Tutto qui richiama al petrolio e, nell’immaginario collettivo, a sua volta il petrolio lancia automatici richiami alla ricchezza. A Kirkuk l’oro nero non manca, è però la ricchezza ad essere completamente assente. Anzi, è forse meglio parlare di una massiccia presenza della miseria. Manca di tutto: il cibo ha prezzi triplicati per via dei checkpoint sempre più presenti nelle strade della provincia, l’elettricità viene erogata per dieci ore al giorno, l’acqua distribuita con delle autobotti. I negozianti hanno difficoltà a riempire di merce le proprie attività commerciali, il lavoro scarseggia e la vita dunque diventa ogni giorno più difficile.
Per strada la gente ne ha per tutti: contro i politici imposti da Baghdad, contro i curdi e contro gli estremisti islamici che minacciano ancora la sicurezza a pochi chilometri dal centro di Kirkuk. Nessuno riesce a prendere in mano la situazione, dunque la diffidenza è nei riguardi di tutti. Lo spettro di una crisi umanitaria è dietro l’angolo: la situazione, proprio come nel sud dell’Iraq, potrebbe precipitare ulteriormente fino a scivolare in violenze figlie della miseria e dell’impossibilità di vivere in determinate condizioni. Non ci si aspetta molto né dal nuovo parlamento, né dal nuovo governo: per adesso l’unica richiesta vera che emerge ai politici, è quella di mettersi d’accordo per chiarire lo status di Kirkuk e fare ripartire quantomeno i più grandi stabilimenti petroliferi e, con essi, un po’ dell’economia.
La Kirkuk dove abbonda il petrolio ma scarseggiano acqua ed elettricità, è comunque soltanto un emblema della situazione in cui versa l’Iraq. Il paese non trova pace: sconfitto militarmente l’Isis, permane comunque il problema della sicurezza e del terrorismo. Nel sud del paese la società rischia di collassare a causa di una situazione economica senza precedenti, a Mosul la ricostruzione post Stato Islamico non è ancora iniziata, a Kirkuk si cerca di sopravvivere come si può. L’Iraq, pur avendo salvato al momento la sua unità, rimane una polveriera pronta ad esplodere con una deflagrazione in grado ancora una volta di coinvolgere il resto del medio oriente.