Lo stallo sul negoziato per la formazione di un governo in Irlanda del Nord, le dimissioni del governo scozzese di Nicola Sturgeon dopo i duri confronti tra Londra e Edimburgo degli ultimi mesi e la svolta ipotizzata da Rishi Sunak su una possibile ritirata britannica dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) puntano convergenti nella stessa direzione: il rinfocolamento del nazionalismo inglese dopo il completamento della Brexit. Alla cui radice c’è proprio la volontà inglese di consolidare, in nome del progetto Global Britain e dell’uscita dall’Ue, l’impero interno dell’Inghilterra sulle nazioni celtiche che compongono il Regno Unito.

La forza dirompente del nazionalismo inglese è fuori tempo massimo sotto diversi punti di vista, primo fra tutti il tentativo di separare il destino di declino di Londra da quello del resto dell’Europa, e motore della visione futura del Regno Unito allo stesso tempo. Si scrive Global Britain, si legge Global England: l’Inghilterra che con il voto delle zone deindustrializzate del Nord, delle aree poco sotto il Vallo di Adriano, delle terre dei minatori e degli operai diventati disoccupati spinge la Brexit e il sogno della leadership del Partito Conservatore di farne il punto di decollo per un Paese sempre più centrato su Londra. Capitale finanziaria, “nave pirata” in movimento nel mare agitato della globalizzazione, “Singapore sul Tamigi” della deregulation finanziaria.

Gavin Esler, autore di How Britain Ends e rettore dell’Università del Kent, da tempo indica nel nazionalismo inglese una minaccia all’unità stessa dello Stato britannico, specie se le speranze frustrate del post-Brexit alimenteranno un atteggiamento di muro contro muro con Belfast, Edimburgo e, in misura minore, Cardiff, capitale del Galles. Nel 2015, convocando per il 2016 il referendum sulla Brexit “David Cameron ha riconosciuto che 3,8 milioni di persone hanno votato per l’Ukip, che era il partito nazionalista inglese, e che bisognava fare qualcosa al riguardo”, ha detto Esler in un’intervista a GQ. Cameron ha tentato senza successo di cavalcare la tigre e Esler riconosce, guardando in retrospettiva il voto del referendum che “gli elettori inglesi hanno tutto il diritto di sentirsi irritati. E invece di fare qualcosa per loro, quello che è successo è che, in particolare sotto Boris Johnson, i conservatori hanno cooptato il nazionalismo inglese”.

I Tory da tempo cavalcano l’idea di un nuovo eccezionalismo. E nella narrazione di Johnson prima e Sunak poi ritorna l’idea che la Brexit, pensata dagli inglesi e votata dagli inglesi, sia la prima tappa di un ritorno della narrativa imperiale. Dunque di una proiezione globale di un Regno Unito non più satellite dell’Impero europeo degli Stati Uniti ma capace di proiezione autonoma da potenza mondiale. Da qui il protagonismo finanziario di Londra dopo la Brexit, il braccio di ferro costante con Bruxelles, il pugno duro contro i nazionalismi locali, spostatisi in campo progressista e sulla Sinistra economica in risposta ai Tory, e le loro richieste, l’alleanza in Ulster con il Democratic Unionist Party (Dup) protestante e reazionario e stampella del governo May nel 2017-2019, la vocazione missionaria in politica estera. Ben verificabile, quest’ultimo punto, nella narrazione seguita da Johnson, Liz Truss e Sunak nell’anno di guerra in Ucraina, in cui il richiamo all’ottocentesco “Grande Gioco” ha rispolverato quello che su queste colonne abbiamo definito il “fantasma dell’impero“.

La conseguenza di tutto ciò? La moltiplicazione di spinte centrifughe a tutto campo. La fine della “Britishness” a favore del dinamismo dei localismi nelle nazioni celtiche e del sempre più ipertrofico nazionalismo inglese, ben verificabile nella concentrazione delle cariche nei tredici anni di governi Tory. In prospettiva, complice la scomparsa della figura unitaria della Regina Elisabetta II e i dilemmi sul futuro della Monarchia, la disunione stessa della nazione britannica non appare più soltanto una chimera, ma una prospettiva non escludibile in termini storici medi, forse già in una generazione. E qualora così fosse, il nazionalismo inglese, neo-imperiale nella sua narrativa, apparirebbe come il primo fautore dello scollamento dei domini di Sua Maestà.

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