La città simbolo della difficile convivenza tra serbi e albanesi nelle zone a cavallo del confine con il Kosovo è senza dubbio Kosovska Mitrovica. La città è divisa in due: la parte nord a maggioranza serba, sede di tutte le istituzioni serbe riconosciute dal governo di Belgrado, la parte sud, albanese e riconosciuta dal governo secessionista kosovaro. Il nucleo cittadino è lo stesso, ma ognuna delle due parti parla la propria lingua, usa la propria moneta, professa la propria fede (cristiano-ortodossa a nord, prevalentemente musulmana a sud). A dividerle, il fiume Ibar, il cui passaggio pedonale è sorvegliato dalle truppe Nato della Kosovo Force (Kfor). Da quando il Kosovo si è autoproclamato indipendente nel 2008, le città con una forte presenza serba o addirittura le enclavi serbe in questa regione stanno via via scomparendo. Si tratta però ancora di avamposti in cui la convivenza resta difficile seppure tutto sommato pacifica, ma che vendono considerati dalla comunità serba come simboli di resistenza a una frammentazione dell’ex Jugoslavia innescata dalla morte di Tito e accelerata dai Tomahawk della Nato. Sebbene tra i serbi il culto del Maresciallo si sia affievolito, e le potenze occidentali (soprattutto la Francia) iniziano ad essere viste con meno ostilità, in molti considerano ancora Belgrado la capitale della Grande Serbia. Se da un lato misconoscono croati e sloveni, dall’altro si sentono depredati della sovranità su Bosnia, Montenegro e di fatto anche sul Kosovo, di cui non riconoscono l’indipendenza ma sono costretti ad ammettere a loro stessi di non poterne più nemmeno esercitarne il controllo.

Uno scenario ribaltato

Viceversa, in ampie zone nel sud della Serbia i residenti stanno vivendo una sorta di contrappasso politico e sociale. Negli ultimi 10 anni infatti, complice la situazione finanziaria di un Paese che figura stabilmente tra quelli più poveri d’Europa, stanno affluendo in massa dei capitali (talvolta di dubbia provenienza) sborsati dagli albanesi del Kosovo, che nelle città serbe di Nis, Leskovac, Vranje, Kursumlija, Prokuplje hanno comprato e continuano a comprare appartamenti, casolari, terreni e piccole imprese agricole. In alcune di queste città, come Vranje, l’albanese è diventata la lingua maggioritaria.

Un fenomeno che, a sentire i residenti, è stagnante da almeno un paio d’anni, ma dal 2010 in avanti è risultato comunque decisivo per poter espandere l’influenza politica del Kosovo anche nella Serbia meridionale. E non è un caso che la linea di demarcazione prediletta sia quella dell’area intorno alla stessa Vranje, città immersa nel verde con 90mila abitanti e sterminati filari di vigneti, dove con 400 euro al mese è possibile mantenere uno stile di vita più che dignitoso.

Lungo questo confine comunale e quello con Bujanovac e Toplica (Prokuplje, Kursumlija, Blace), molti immobili e attività commerciali sono di proprietà albanese, dopo che per anni la concentrazione maggiore si era mantenuta intorno alla città di Nis. Anche qui, dal 2012 al 2016, oltre 11mila asset serbi sono passati di mano. Tutti dati non ufficiali da ritoccare forse al rialzo. E la spiegazione è molto semplice: i contratti di vendita vengono stipulati quasi interamente grazie alla connivenza dei serbi del Kosovo.

Per gli albanesi è un’operazione win-win: si raggiunge l’obiettivo politico e si rispettano le leggi, grazie a passaggi burocratici di compravendita simulata. Ad esempio: un albanese dà ad un serbo denaro per comprare una proprietà a proprio nome, stipulando un altro contratto in tribunale secondo il quale l’albanese presta al serbo l’esatto ammontare di denaro necessario, mentre la proprietà viene presa in garanzia. Il serbo, trattenendo per sé una percentuale, non ripaga il debito in tempo, permettendo all’albanese di diventare proprietario dell’asset senza lasciare alcuna traccia della transazione.
A Prokuplje, Blace e Kursumlija, invece, gli albanesi offrono prezzi per le aziende agricole di quella regione di gran lunga superiori a quelli di mercato e non ne assumono la proprietà, ma conferiscono al precedente proprietario una speciale procura, di solito redatta da un avvocato di Pristina, che “presta” direttamente la proprietà alla persona in questione. Poiché gli albanesi del Kosovo sono ancora considerati cittadini dello stato serbo, potrebbero acquistare liberamente immobili in qualsiasi parte del paese. Tuttavia, il problema è che non riconoscono la Serbia come loro paese, e quindi impegnano i serbi a fare il lavoro per loro.

Il ruolo dell’Islam radicale

Anche Novi Pazar, città con una forte comunità islamica della Serbia sudoccidentale, è sulla lista delle località desiderabili, ma ci sono acquirenti interessati soprattutto alle proprietà contadine, lontane dalla città. Per questo motivo molti media serbi ipotizzano che si tratti di membri del movimento radicale islamico wahhabita che qui ha messo radici da anni e, seppur indebolito da faide interne, ha svolto un ruolo importante nel reclutamento di combattenti tra le fila dell’Isis in Siria e in Iraq. Come detto, questo interesse per le proprietà nella Serbia meridionale è stato associato all’intenzione degli albanesi di espandere il confine amministrativo del Kosovo in altre parti della Serbia, mentre per gli albanesi di cittadinanza assume una valenza significativa anche per poter ottenere il passaporto serbo, molto utile poiché consente di soggiornare senza bisogno del visto in paesi come la Russia, la Cina, la Corea del Nord e l’Iran. In entrambi i casi, a farne le spese sono i contadini e gli artigiani fieramente serbi che hanno deciso di non prestarsi a questo lento processo di neocolonizzazione, ma che vivono nel timore che, a causa del crescente afflusso di albanesi dal Kosovo, possano subire lo stesso destino dei proprio connazionali emigrati dalla Repubblica autoproclamata. Sono quindi convinti che in futuro ci saranno sempre più albanesi in queste zone e sempre meno serbi, e che sia in corso un’occupazione silenziosa della Serbia meridionale che li costringerà, un giorno non troppo lontano, a doversi trasferire altrove.