Siamo abituati a chiamarli “minoranza” ma in realtà i curdi sono più di 30 milioni di persone divise tra Iran, Iraq, Turchia e Siria. Nel tempo, li abbiamo associati ad Abdullah Öchalan, alle azioni del Pkk, allo sterminio messo in atto da Saddam Hussein, poi ancora a coraggiose guerrigliere dai lunghi capelli neri, moderne amazzoni che combattono l’Isis: ed è sempre lo stesso popolo che, in questi giorni, rischia di soccombere sotto il pugno di ferro di Ankara con il placet dell’Occidente.

Le ceneri della Grande Guerra

Eppure, esattamente cento anni fa, una finestra lasciata aperta dalla storia aveva quasi “rischiato” di trasformare i curdi in una nazione. Unica minoranza etnica e linguistica sopravvissuta nelle regioni centrali dell’islam mediorientale, benché convertiti all’Islam, i curdi hanno mantenuto lingua e identità proprie. Essi, per lungo tempo, si sono accontentati di essere un popolo di musulmani all’interno della grande Umma: per questa ragione la definizione delle categorie Kurdistan e Kurds stentò ad affermarsi.

Cento anni fa,  la fine della Prima guerra mondiale mise in luce l’esigenza di una redistribuzione del potere nei territori ex ottomani: tra questi vi erano i territori armeni, lacerati dal primo genocidio del Novecento. Ma accanto al problema armeno, ecco sorgere nei carteggi della Conferenza di Pace di Parigi anche un “problema curdo”. Tuttavia, i pamphlet in dotazione ai delegati alla Conferenza di Parigi, redatti dal Foreign Office britannico, scendevano vivamente nel dettaglio della geografia e della storia armena, ma informavano ben poco sul popolo curdo. In un tale quadro solo un intervento illuminato avrebbe potuto agevolare l’affermazione internazionale dei curdi: quell’intervento era quello del presidente americano Woodrow Wilson. Fra le sue proposte, note come Quattordici Punti, la lunga eco del principio di autodeterminazione dei popoli si sparse nei territori ottomani rinvigorendo l’intellighenzia del “popolo senza nazione”.

Il trattato di Sèvres: la speranza si riaccende

Con il Trattato di Sèvres, nel 1920, si affrontò per la prima volta, giuridicamente, la vicenda curda. Ma gli alleati di Wilson, principalmente Francia e Gran Bretagna, avevano già scelto di perseguire comunque una politica imperialista. Attraverso gli accordi interalleati del 1916-1917, i possedimenti ottomani, compresa la Turchia turcofona, furono trasformati in influence or occupation zones da Francia, Gran Bretagna, Russia zarista e Italia. Ma, in merito alle garanzie reali concesse ai curdi, il futuro sembrava tutt’altro che semplice. Innanzitutto, il Kurdistan persiano non sarebbe stato incluso nel futuro Kurdistan; la cosiddetta “Kurdish local autonomy” avrebbe riguardato, in sostanza, solo le aree inabitate a est dell’Eufrate. Il confine meridionale dell’Armenia con la Turchia sarebbe stato fissato in seguito, tramite arbitrato, da parte del presidente degli Stati Uniti nei vilayets di Erzurum, Trebizond, Van e Bitlis.  Questo implicava che i vilayet citati sarebbero stati frazionati tra l’Armenia, indipendente, e il Kurdistan autonomo: ciò comportava che tutte le città comprese tra Van, Bitlis, il confine russo e il Mar Nero, sarebbero state cedute all’Armenia.  Ma Van, Bitlis e Erzurum erano curde. Da qui, l’intuizione alternativa di Wilson: egli proponeva che non si insistesse sulla questione etnico-religiosa perché ciò avrebbe balcanizzato l’area; si doveva agire, invece, nel rispetto delle vie d’acqua, dei traffici commerciali e dei movimenti dei pastori nomadi. Venendo ora al Kurdistan meridionale, va ricordato che questa porzione di territorio era occupata illegalmente dai Britannici. Nessuno, nelle burocrazie europee, si era preoccupato di definire il confine turco-mesopotamico (poi turco-iracheno), generando quella che poi sarebbe divenuta la “disputa di Mosul” tra Gran Bretagna e Turchia. Per quanto concerne il confine turco-siriano, invece, il fronte sarebbe stato definito con l’accordo franco-turco di Ankara il 20 ottobre 1921, privando la Siria di una piccola porzione di Kurdistan ottomano, specialmente nelle aree di Jazireh e Kurd-Dagh.

Le popolazioni turche insorsero in armi contro il Trattato che, de jure, sanciva l’occupazione sulle ceneri di Costantinopoli. Una guerra di liberazione nazionale, più che una rivolta, e fu proprio fra i curdi che Kemal Atatürk iniziò la propria opera di propaganda, nei vilayet orientali, promettendo al popolo senza patria un futuro. Egli non disdegnò l’idea di un dialogo con i curdi, arrivando perfino a chiedere sostegno ai loro capi religiosi e tribali. Sorprendentemente, la maggioranza delle popolazioni curde appoggiò il movimento kemalista in prima battuta.

Atatürk, riuscendo a mobilitare forze ingenti raggiunse Ankara, ove convocò un’Assemblea nazionale con lo scopo di rifiutare la legittimità del Trattato di Sèvres, stringendo tra l’altro rapporti diplomatici sempre più stretti con il governo russo. Fu questo il momento in cui le forze d’occupazione (Americani, Francesi e Italiani) si resero conto dell’impossibilità di applicare alla lettera il Trattato di Sèvres. I negoziati furono conclusi il 24 luglio 1923, riflettendo il ribaltamento della situazione di tre anni prima. La nuova Turchia recuperò i suoi confini europei del 1914 con rettifiche minori, lasciando ancora fumosa la vicenda del confine con i mandati.

Svanisce il sogno di un Kurdistan indipendente

Alla Conferenza di Losanna, il 23 gennaio 1923, Ismet Inonü, capo della delegazione turca e poi primo ministro, sottolineò come tutti i generali curdi e gli ufficiali di alto rango dell’Impero fossero pieni di rispetto e ammirazione per il servizio e i sacrifici resi per salvare la nazione. Tuttavia, il governo di Ankara non poteva essere considerato “straniero” dai curdi a tal punto da chiedere l’indipendenza, perché essi stessi parte della nazione turca. Come si poteva immaginare, il nuovo Trattato non citava affatto la vicenda curda e nulla diceva circa la sopravvivenza di questa minoranza all’interno della Repubblica. Tutte le questioni che il Trattato di Sèvres aveva lasciato aperte erano state, in qualche modo, rimodulate dal Trattato di Losanna, eccetto il destino dei curdi, quelli iracheni in particolar modo. Una volta firmato il Trattato, il governo turco fu pronto a riversare la propria politica culturale totalizzante basata sulla mononazionalità sui “propri” curdi, accusandoli, in seguito, di essere stati strumento a servizio dei britannici e di aver remato contro il governo turco durante il primo conflitto mondiale e la Guerra di indipendenza. Una serpe in seno, insomma, da combattere e schiacciare. Come in questi giorni, cento anni dopo.