La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando anche nel lessico comune italiano, in quello giornalistico soprattutto. Si tratta di fenomeni ancora poco radicati nella coscienza comune, evanescenti, inafferrabili. Non esiste nulla di tutto ciò, secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra: sono solo paranoie dei conservatori, buone per far propaganda e demonizzare l’avversario. Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, non solo secondo gli opinionisti di destra, ma anche per tutte quelle personalità di sinistra (giornalisti e docenti, soprattutto) che ne sono rimasti vittima. L’associazione Fire (“Foundation for Individual Rights in Education”, fondazione per la difesa dei diritti individuali nell’educazione) permette di comprendere correttamente la portata del fenomeno: è minoritario, ma importante e rischia di dilagare in futuro.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano e non a caso si è diffusa ultimamente a seguito del movimento Black Lives Matter, soprattutto dal 2015 in poi. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”, anche se ultimamente è diventata la definizione del più generico “consapevole” (del problema, dell’ingiustizia, ecc…). Stare “in allerta” era d’obbligo per quei neri che uscivano dal loro quartiere e che rischiavano di fare una brutta fine per mano dei bianchi, ai tempi della segregazione. Dopo mezzo secolo dalla fine definitiva della segregazione, per molti neri il ghetto dà ancora un senso di protezione nei confronti del mondo esterno ed ogni episodio di brutalità della polizia contro un nero disarmato è indicato come prova di un razzismo persistente. Nelle università più costose d’America sono invece gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili. La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo i dati della Fire, dal 2015 al 2021, 426 docenti sono stati segnalati per aver espresso opinioni controcorrente, tre quarti di essi (314) hanno subito sanzioni. Il trend è in forte crescita: si contavano 24 casi di segnalazione nel 2016, sono arrivati a 113 nel 2020. La maggior parte dei docenti è stata contestata per discorsi che riguardano la questione razziale. Nei due terzi dei casi, solo perché hanno espresso un loro parere personale. Quasi sempre, le segnalazioni arrivano da gruppi organizzati di studenti di estrema sinistra o anche da colleghi dei docenti. Secondo Greg Lukianoff, il direttore di Fire, gli studenti sono già “tendenzialmente liberal” e all’università incontrano docenti “molto liberal” e un personale non docente “estremamente liberal”.

La sua fondazione fornisce una mappa aggiornata di scuole e università in cui la libertà di espressione è minacciata da regolamenti interni. E stila la classifica delle istituzioni in cui la libertà di parola è maggiormente repressa, ogni anno. La gran maggioranza delle istituzioni è in zona gialla, dunque a rischio. Solo una minoranza è nella zona verde (maggior tutela della libertà di espressione) e sono già di più le istituzioni in zona rossa, dove la repressione è esplicita. I docenti che si definiscono conservatori sono una minoranza sparuta (2,5%), dunque la politicizzazione nelle università e i fenomeni di cancel culture sono quasi esclusivamente appannaggio della sinistra. Il fenomeno è minoritario, ma importante appunto: episodi di censura sono avvenuti nel 65% delle università più influenti degli Stati Uniti e in ciascuna delle dieci scuole più prestigiose si sono registrati almeno 10 casi. Si tratta dunque di un fenomeno che colpisce l’élite del futuro.

Il quadro che fornisce Fire è parziale, perché riguarda solo l’educazione, a tutti i livelli. Mentre la “woke revolution” riguarda anche altri settori importanti della società. I media, prima di tutto, il cinema e l’arte e sempre più anche il mondo delle grandi aziende. Le multinazionali dell’informatica, le Big Tech sono a trazione woke, già da anni. Basti l’esempio di Netflix, attentissima a non dire nulla di scorretto, eppure una battuta di troppo sui transgender è scappata al comico afroamericano Dave Chapelle. Il risultato immediato è stato uno sciopero del personale e una campagna mediatica che ha indotto Chapelle ad incontrare i rappresentanti della comunità transgender.

Bari Weiss è la scrittrice e giornalista ebrea (membro di una minoranza, dunque, ma “privilegiata” secondo i canoni del nuovo antirazzismo) che ha rassegnato le dimissioni dal New York Times perché subiva mobbing dai suoi colleghi woke e non era difesa dai superiori. La sua è diventata la battaglia di tutte le vittime della cancel culture, vittime di sinistra soprattutto, epurate da chi è più puro. Sulla rivista conservatrice Commentary, la Weiss ha scritto un articolo-manifesto che descrive non solo le caratteristiche della woke revolution, ma porta anche numerosi esempi che permettono di comprendere quanto il fenomeno sia infido e pervasivo. Per Bari Weiss, infatti, “si viene condannati per quello che si è” e non per quel che si fa. Il maschio, bianco, eterosessuale, ma anche la donna ebrea bianca, sono “privilegiati”.

In una terza elementare si insegna ai bambini bianchi di liberarsi e pentirsi del loro privilegio, innato. In un’altra scuola, prestigiosa, per altro, si ritiene che un insegnante bianco non possa tenere lezioni a bambini neri. Non si distingue neppure l’intenzionalità, anche un fraintendimento può portare a una condanna: un operaio che scrocchia le dita in modo “sospetto” (che ricorda un gesto identificativo dei suprematisti bianchi) viene licenziato in tronco. Un professore di linguistica che insegna l’uso del “like” (come) e ha studenti cinesi, viene tacciato di razzismo perché “like” in cinese ha un suono simile a quello dell’ormai impronunciabile parola latina con cui si identificavano i neri. Sono storie surreali, angosciose che ricordano i regimi totalitari di Stalin e di Mao più che la terra della libertà. Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimento più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.





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