“Catalogna non è Spagna”, dicono i primi. “Barcellona non è Catalogna”, rispondono i secondi. Il gioco delle scatole cinesi arriva anche nell’indipendentismo catalano e muta radicalmente il quadro del sistema politico nel momento in cui ci sono ancora speranze che il primo di ottobre s’indica il famigerato referendum sull’indipendenza della Catalunya. Perché se tutti credono fermamente che ci sia una Catalogna fieramente indipendentista e che non vede l’ora di staccarsi dallo Stato centrale, in realtà c’è un’altra Catalogna, segreta ma anche di maggioranza visti i risultati del precedente referendum, che non ha alcuna intenzione di sentirsi parte di uno Stato autonomo, ma che si sente fieramente spagnola. Questa seconda Catalogna prende il nome di Tabarnia, un movimento autonomista all’interno dell’autonomia catalana, che non vuole continuare ad essere parte della Generalitat de Catalunya, ma formare a sua volta un’entità autonoma per rimanere in Spagna.
L’idea è nata da un gruppo di associazioni e movimenti, in particolare di Barcellona e Tarragona, che reputano nefasto il tentativo di rompere con Madrid. E il movimento usa le stesse identiche ragioni e gli stessi strumenti che utilizzano gli indipendentisti catalani: ragioni storiche, culturali, economiche e politiche. Come la Catalogna vuole distaccarsi da Madrid perché si reputano storicamente diversi e non della stessa matrice storico-culturale, allo stesso modo Barcellona e Tarragona reclamano una diversità rispetto all’interno della Catalogna, dove si sente molto di più il sentimento secessionista. Ci sono motivazioni economiche infine, e cioè quello secondo cui non è la Catalogna a generare ricchezza, ma è Barcellona e la regione della cosiddetta Tabarnia a rendere l’intera Generalitat una regione moderna e molto più ricca di altre autonomie spagnole. E che soprattutto per evitare una crisi economica senza precedenti, vuole evitare a tutti i costi sia l’uscita dalla Spagna sia, e soprattutto, l’uscita dall’Unione Europea, primo vero effetto dell’eventuale (e per ora improbabile) secessione catalana.
Da queste premesse, nasce l’idea, già nel 2011, di formare la diciottesima comunità autonoma di Spagna. Una nuova realtà all’interno dello Stato spagnolo che comprende Barcellona, Tarragona e il tratto costiero che le collega, e che toglierebbe, di fatto, alla Catalogna la sua parte più ricca e quella che attrae il maggior numero d’imprese e di turismo. Una perdita enorme per il movimento autonomista, ma che sarebbe una paradossale quanto intelligente exit-strategy rispetto alla sfida indipendentista della Catalogna, che già sta facendo perdere molto denaro alle casse della regione. Perché mentre il governo della Catalogna s’impegna quotidianamente in un referendum incostituzionale, sempre più imprese, soprattutto straniere, decidono di non investire più nella regione per evitare d finire in mezzo a un processo indipendentista che può portare solo conseguenze catastrofiche. L’uscita dal mercato spagnolo, dall’Unione Europea e quindi dall’euro sono viste come minacce molto serie dagli investitori stranieri, che infatti hanno da tempo intrapreso la via della delocalizzazione non più in Catalogna ma in altre regioni spagnole.
La dimostrazione di questa assenza di volontà di indipendenza rispetto allo Stato centrale era già evidente ai tempi del primo referendum sull’indipendenza, quello del 9 novembre 2014. Nella “Tabarnia”, coloro che votarono a favore dell’indipendenza furono soltanto il 27% degli elettori, contro il 42% delle regioni interne. Nelle elezioni amministrative, le cosiddette “auotonomicas” in Tabarnia il fronte autonomista arrivò al 44% contro il 66% delle province al di fuori di Barcellona e dintorni. Un segnale inequivocabile di come il separatismo catalano sia un fenomeno notevolmente più complesso di quanto descritto da molti ferventi indipendentisti, ma che soprattutto dimostra le fragilità del sogno secessionista ai giorni nostri. Consegnare la volontà di secedere da uno Stato a una consultazione popolare, inevitabilmente comporta dei rischi di democrazia. Perché ci saranno sempre una città o una provincia che non si sentono parte di quella determinata realtà, o un elettorato che non vuole riconoscersi nella decisione presa da una maggioranza. Sono fenomeni storici e culturali troppo importanti per rimetterli alla volontà delle urne e lasciare che una croce su un foglio cambi la storia di secoli di convivenza.