C’è una crisi migratoria di cui non parla nessuno. Non si sta verificando nelle nostre acque, non riguarda l’Europa, ancor meno l’Africa su cui, giustamente, vengono versati fiumi di inchiostro. Per qualche anno la situazione sembrava essersi stabilizzata. Adesso, l’immigrazione clandestina da Cuba verso gli Stati Uniti è sul punto di tornare a quarant’anni fa.
Dalla rivoluzione castrista al XXI secolo
“Gusanos” (Vermi), “Escoria” (Spazzatura): queste le parole uscite dalla bocca di Fidel Castro per umiliare i suoi concittadini in fuga dal suo Paese verso gli Stati Uniti. L’immigrazione da Cuba ha una lunghissima storia, che ripercorre per intero l’esistenza dell’attuale regime comunista. Dal 1959 a oggi 1,3 milioni di cubani sono entrati negli USA, cifra che vale circa il 3% totale dei 44 milioni di immigrati presenti negli States. Sono concentrati perlopiù in Florida, l’approdo più prossimo all’arcipelago, ma soprattutto il varco d’ingresso per l’Occidente libero e democratico.
Le Isole Keys si trovano nell’estremo sud dello Stato, a 78 miglia nautiche (145 km) dalle coste cubane. Nei decenni passati sono state letteralmente invase da zattere (balseros) e barchini di ogni tipo. La prima ondata scoppiò subito dopo la rivoluzione castrista, con l’aristocrazia locale – legata al vecchio regime filoamericano –, cacciata dal nuovo potere politico di stampo socialista.
Tra gli anni ’60 e ’70 si crearono alcune centinaia di migliaia di rifugiati, tutti accolti dall’orgoglioso anticomunista Zio Sam, fedele alla politica dei “piedi bagnati, piedi asciutti”. Il picco arrivò nel 1980, quando L’Avana aprì il porto di Mariel, dal quale, in appena sei mesi, partirono 125mila persone, i cosiddetti marielitos. Questi non ebbero la stessa fortuna di chi lasciò l’isola prima di loro e impiegarono maggior tempo a integrarsi nel tessuto sociale statunitense, preferendo il freddo e industriale Midwest al caldo tropicale della Florida che ricordava il clima di casa.
Salvo un ultimo sussulto nei primi anni ’90, agli albori del Periodo Especial (la crisi economica che mise in ginocchio Cuba per via del crollo dell’URSS), dall’inizio del XXI secolo il governo degli Stati Uniti ha introdotto forti limitazioni al Cuban Adjustment Act, la legge emanata durante la guerra fredda che tuttora prescrive i requisiti per gli immigrati cubani che vogliono ottenere lo status di rifugiato.
Il triste epilogo dei clandestini sulle sponde della Florida
In tutto questo tempo, la rotta dei migranti è rimasta affollata, con imbarcazioni di fortuna di cui purtroppo sovente si rinvengono soltanto i tronchi o le strutture portanti sulle rive dell’affascinante Key West, il punto più meridionale della Florida.
Una traversata oceanica, benché di 145 km, è pur sempre una traversata oceanica e può facilmente trasformarsi in un tragitto della morte. In condizioni meteo avverse, il naufragio è una certezza, e sopravvivere in mezzo agli squali è impossibile. Chi lascia Cuba ricorre all’illegalità. Uno scafista può chiedere fino a 5mila dollari per un biglietto di sola andata a bordo di un barcone, ma il fine giustifica i mezzi.
Le statistiche di quest’anno mostrano un aumento del 450% degli sbarchi in Florida. Le ragioni che portano la gente disperata ad abbandonare la nazione dove è cresciuta ruotano attorno a una radice comune: le politiche del governo autoritario dell’Avana, che ultimamente avrà pure riformato il codice della famiglia approvando i matrimoni e le adozioni gay, ma resta un esecutivo liberticida che ha distrutto la sua economia.
Le manifestazioni contro il governo di Miguel Díaz-Canel, il successore di Raúl Castro, sono incominciate nell’estate del 2021, al culmine dell’emergenza sanitaria. La pessima gestione della pandemia, sfruttata come strumento di soft power all’estero con l’esportazione dei tanto decantati medici cubani (anche in Italia), ha fatto divampare il malcontento con le più grandi proteste antigovernative degli ultimi 63 anni. I recenti disastri naturali, l’incendio del deposito di petrolio a Matanzas e l’uragano Ian, hanno cagionato ulteriore miseria: oltre alla crisi alimentare si è aggiunta quella energetica. E la furia di chi, esausto, ha deciso di scendere in piazza a opporsi contro la dittatura si muove su un binario parallelo rispetto a chi può permettersi di sfidare la sorte con un viaggio della speranza.
L’integrazione dei cubani negli Stati Uniti
La Border Patrol, l’agenzia governativa USA deputata al presidio delle frontiere, opera decine di migliaia di respingimenti ogni anno. La politica americana conosce le dinamiche e le motivazioni di questa crisi, equipollente a quella del confine meridionale col Messico, dove sta proseguendo la costruzione del muro di Trump (inventato da Clinton). È la preoccupazione numero uno dei Repubblicani, come ha confermato il leader Kevin McCarthy prima delle elezioni di Midterm che hanno consegnato una maggioranza di misura al suo Partito alla Camera dei Rappresentanti. Qual è la soluzione, allora?
I conservatori americani partono da un dato di fatto che ha avuto ripercussioni importanti nella geografia elettorale del Paese: i cubani-americani, residenti principalmente in Florida, disprezzano la sinistra USA. Diversamente dagli altri gruppi latinoamericani, i cubani si schierano con la destra GOP perché è l’unica a denunciare l’autoritarismo del regime cubano. “La sinistra non sopporta che i cubani americani infrangano gli stereotipi liberal e i loro principi. Il nostro successo, dopo soli cinque decenni di permanenza nel Paese, smentisce la tesi secondo cui l’America è sistematicamente iniqua e razzista” spiega Ana Rosa Quintana del think tank conservatore Heritage Foundation.
A personificare questo ampio movimento politico, di cui la Florida è protagonista, è il senatore Marco Rubio. Rubio, 51 anni di Miami, non ha mai smesso di criticare l’approccio Democratico su Cuba ed è stato eletto tre volte al Senato, diventando inoltre il primo cubano-americano candidato alle primarie presidenziali. Il Senatore della Florida, insieme alla totalità del gruppo dirigente latinoamericano del GOP in Florida, è l’antitesi delle politiche di appeasement dei dem, ben rappresentate dalla visita di Stato nel marzo 2016 di Obama, pronto all’epoca ad abolire lo storico embargo in vigore da sessant’anni.
L’appeasement di Biden
Tutto è cambiato con l’avvicendamento di Donald Trump alla Casa Bianca, acerrimo rivale di Rubio in passato, ma promotore di un’aspra e ostile lotta contro il regime. Il Tycoon nel 2017 bloccò il rilascio dei visti, costringendo i cubani intenzionati a emigrare legalmente negli Stati Uniti a recarsi fino all’ambasciata USA in Guyana per avviare le pratiche dell’immigrazione. Biden, più indulgente del suo predecessore, abrogherà questa norma, forse per tallonare un po’ l’immigrazione clandestina da record.
Dal 2023, infatti, qualsiasi cittadino cubano con uno “sponsor” negli Stati Uniti – quelli che, grazie alle loro rimesse, mantengono a livelli dignitosi il reddito dei loro familiari in patria – potrà tornare a fare richiesta all’ambasciata americana all’Avana, la stessa ambasciata i cui diplomatici nel 2018 sono stati colpiti da una misteriosa sindrome che ha preso il nome della capitale cubana e imputata all’impiego di armi a micro-onde e soniche. USA e Cuba potrebbero cercare un compromesso per risolvere un problema che danneggia entrambi.
D’altro canto, pare che con il Venezuela si stia per uscire dall’impasse cominciata durante l’era Trump, mentre il caos al confine con il Messico costerà altri voti in Texas ai Democratici. Assecondare, se non addirittura compiacere, il regime cubano, va detto, non ne provocherà la sua caduta. E questo Washington, uscita vittoriosa dalla contrapposizione novecentesca con il comunismo sovietico grazie alla sua rigorosa intransigenza e inflessibilità, dovrebbe saperlo.