Mentre il 2022 si chiuderà con oltre centomila sbarchi via mare, il nuovo governo dell’Italia guidato da Giorgia Meloni sta studiando una nuova strategia a medio-lungo per contrastare il traffico di esseri umani. Archiviata l’ipotesi di un blocco navale nel Mediterraneo centrale, misura che corrisponderebbe a un atto di guerra contro Tunisia e Libia, l’idea è quella di sigillare i confini di sabbia del Sahel e di intervenire a monte del problema, mettendo in campo tecnologia, investimenti e know-how insieme all’Europa. Un percorso ambizioso ma irto di ostacoli, come la prosecuzione della crisi libica; l’incognita dell’economia tunisina; il boom demografico dell’Egitto; i possibili sabotaggi di Paesi terzi come Russia e Cina.

L’instabilità Libia

L’ex Jamahiriya di Mu’ammar Gheddafi, primo Paese di partenza dei migranti che sbarcano in Italia, è sempre sull’orlo della divisione tra Cirenaica e Tripolitania. Le regioni rispettivamente dell’ovest e dell’est della Libia sono in balia di potenze straniere quali Turchia da una parte e Russia ed Egitto dall’altra. Nel Paese ci sono oggi due governi paralleli: uno riconosciuto dalle Nazioni Unite, basato a Tripoli, il cui mandato è scaduto da mesi; un altro sostenuto dal vecchio Parlamento dell’est, privo di legittimità internazionale e di entrate petroliere.

La favoletta delle “elezioni credibili, trasparenti e inclusive” è oggi, appunto, una fiaba a cui non crede più nessuno. Intanto due figure si ergono sopra i “dinosauri politici libici” (la definizione è dell’ex inviata Onu, Stehpanie Williams) che da oltre un decennio lottano contro l’estinzione: il premier del Governo di unità nazionale, Abuldhamid Dbeibah; il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, Khalifa Haftar. Ad oggi, ogni tentativo di controllare gli oltre 2.000 chilometri di confini meridionali libici con Algeria, Niger, Ciad ed Egitto passare necessariamente da questi due uomini di potere.

Le incognite in Tunisia

Da culla della primavera araba lodata per anni come “modello di democrazia musulmana”, la Tunisia è governata oggi da un uomo solo al comando. Il presidente della Repubblica, il giurista Kais Saied, ha sciolto il Parlamento, nominato un governo di “tecnici” a lui fedeli e sponsorizzato una nuova Costituzione che si dice sia stata scritta da lui stesso. Ma il vero problema è la tempesta economica e sociale che sta colpendo il secondo Paese di partenza dei migranti (tra i quali molti tunisini, ma anche tanti subshariani) che arrivano in Italia.

La guerra in Ucraina ha causato una scarsità di materie prime quali zucchero e farina, innescando una pericolosa spirale di inflazione, speculazione e repressone. Una bocca di ossigeno per lo Stato tunisino arriverà a fine anno con la prima rata del maxi-prestito internazionale, ma in cambio l’Fmi chiede riforme strutturali lacrime e sangue. L’Italia, da parte sua, non può “tifare” per questo Paese fondamentale per la stabilità del Nord Africa, per il transito del gas algerino verso la Sicilia, per il controllo dei flussi migratori illegali e per gli investimenti italiani in loco (il nostro Paese è il primo partener commerciale della Tunisia davanti alla Francia).

La situazione in Egitto

L’Egitto del presidente-generale di ferro Abdel Fattah al-Sisi è molto meno solido di quel che sembra. Non è un caso che dei quasi centomila migranti sbarcati in Italia, oltre il 20% provenga dal Paese delle piramidi. Gli egiziani sono effettivamente in cima alla classifica delle nazionalità dichiarate allo sbarco: 20.069 secondo i dati del Viminale aggiornati al 9 dicembre. Per anni, Al Sisi si è vantato con l’Europa di riuscire a contenere i flussi verso il Vecchio Continente. Oggi non è più così per una serie di motivi.

In primis perché il boom demografico del Paese arabo più popoloso del mondo (l’Egitto è un colosso di oltre 100 milioni di abitanti) è molto difficile, se non impossibile, da controllare. I militari egiziani stanno smantellando gli slum e costruendo una serie di nuove città (Nuova El Al Alamein, la Nuova Capitale amministrativa, Nuova Mansoura e così via) ancora mezze vuote, con il rischio concreto di creare una bolla immobiliare. Inoltre, il Covid prima e la guerra in Ucraina hanno inevitabilmente rallentato lo sviluppo delle infrastrutture, oltre ad aver alimentato l’inflazione a causato il crollo della sterlina egiziana. E l’instabilità in Libia alimenta una rotta migratoria che è sempre esista, ma che oggi è sempre più gettonata (e sempre più pericolosa).

Un centro di controllo a Roma

Di fronte a tutto questo, agire nel medio-lungo periodo per non inseguire i flussi, ma governarli, è fondamentale. Secondo un’indiscrezione dell’Agenzia Nova, Roma potrebbe ospitare una “struttura internazionale permanente” per il controllo dei confini del cosiddetto Mediterraneo profondo, ovvero gli i confine che la Libia condivide con Algeria, Niger, Ciad, Sudan ed Egitto. L’idea è quella di creare “un coordinamento Libia-Sahel”, con sede in Italia e “il coinvolgimento diretto dell’Unione Europea”. Il centro non si limiterebbe a combattere il traffico di esseri umani, ma anche il terrorismo e la criminalità organizzata “in sinergia tra le due sponde del Mediterraneo”, con “l’obietto di spostare il baricentro più a sud”. Un primo incontro su questo tema dovrebbe tenersi all’inizio del 2023 proprio a Roma.

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