La versione inglese di questo articolo è parte del sedicesimo numero del magazine inglese di “Inside Over”, “Old Continent, New Challenges”, dedicato al futuro dell’Europa, disponibile qui.
In principio, l’Europa era il centro del mondo; o pensava di esserlo. Lo è ancora nei planisferi. Ne esistono con al centro gli Stati Uniti, o la Cina, ma non sono altrettanto diffusi a livello globale. Al centro dell’Europa c’è il Mediterraneo, crogiuolo di culture, commerci e conflitti. L’Europa ha colonizzato gran parte del mondo, a ovest, a sud e a est -sempre rispetto al Vecchio Continente. Ha causato danni, ma anche favorito incontri duraturi e fruttuosi.
Nel bene e nel male, dunque, il Vecchio Continente ha influito per secoli sul mondo, ma adesso è una parte cospicua del mondo ad influire su di essa. Ci riferiamo ai paesi del cosiddetto “Mediterraneo allargato”, una regione geopolitica dai confini fluidi che include il Medio Oriente e l’Africa del Nord (MENA), ma anche tutta la fascia del Sahel e il Corno d’Africa a sud, i paesi che si affacciano sul Mar Nero a nord-est, il Golfo Persico, fino ad arrivare all’Iran, all’Afghanistan e al Pakistan. È da molti di questi paesi che partono i flussi migratori che, ormai da decenni, investono l’Europa e che il Vecchio Continente continua a gestire come un’emergenza quando è ormai chiaro che si tratta di una questione strutturale. Le cause che spingono le persone a migrare sono numerose e collegate l’una con l’altra. I conflitti, le circostanze politiche, le violazioni dei diritti umani, la mancanza di lavoro e di prospettive future, la crescita demografica, i problemi ambientali, contribuiscono tutti a determinare, nei paesi di partenza, condizioni di vita difficili, spesso tragiche, che spingono un numero di persone sempre maggiore a migrare in cerca di una vita migliore.
Le circostanze qui descritte non sono certo nuove. Eppure, ad ogni nuovo arrivo, e nonostante le numerose leggi europee e statali per la gestione dei flussi migratori, l’Europa come Unione, e i singoli stati, sono assaliti da crisi di panico, sia che si tratti dei paesi di primo approdo (Italia, Grecia, Cipro, Spagna, Malta), sia di quelli dell’Europa settentrionale e orientale, molti dei quali non hanno alcuna intenzione di redistribuire sul proprio territorio i migranti arrivati in altri paesi europei (Austria, Ungheria e Polonia, tra gli altri).
Sarebbe forse opportuno arginare il panico e fare alcune riflessioni. Nessuno intende negare che le migrazioni dai paesi di quello che definiamo il Mediterraneo Allargato ci siano, che continueranno ad esserci e che, soprattutto a causa della prorompente crescita demografica di quei paesi, è probabile che aumenteranno. Questo, naturalmente, avrà effetti sulle nostre società. “L’ansia da migranti”, però, potrebbe diminuire considerando i dati relativi al 2022 forniti dal Flow Monitoring dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni: il numero di migranti verso l’Europa è notevolmente diminuito dal 2016 ad oggi – 389.976 persone contro le 93.723 attuali. Il picco di arrivi si registra quasi sempre in relazione a guerre o a disordini di tipo politico-sociale, come è accaduto in occasione delle Primavere Arabe o nei momenti più tragici della guerra in Siria. Molti degli arrivi, in queste occasioni, erano di persone che sarebbero rientrate nella categoria dei richiedenti asilo e poi dei profughi.
Sono, però, i migranti “irregolari” quelli a destare maggiore preoccupazione tra i governi. Le tipologie in cui si tenta di far rientrare i diversi migranti sono numerose ed è, in realtà difficile, definirne esattamente i confini. Per fare un esempio: chi potrebbe vedersi riconosciuto lo status di rifugiato, entra nel paese di accoglienza come irregolare, se non addirittura come clandestino. Dovrà poi affrontare un lungo iter per essere identificato come richiedente asilo e poi riconosciuto come profugo. E i migranti climatici? Davvero è così diverso fuggire da paesi dove le siccità ha cancellato ogni possibilità di sicurezza alimentare o di accesso all’acqua, dalla fuga da un paese in guerra o dove si è soggetti a persecuzioni? Non si rischia la vita in ogni caso? Lo stesso dovrebbe valere per i migranti economici, che spinti dalle precarie condizioni economiche dei paesi d’origine, fuggono dalla miseria. Non è un richiedere asilo anche il loro?
Probabilmente, più che gridare all’invasione, l’Europa e gli stati che ne fanno parte dovrebbero farsi un esame di coscienza e riconsiderare molte delle leggi esistenti, magari rendendo meno macchinosi e lunghi sia i meccanismi di accoglienza, sia quelli che permettono di rimpatriare i migranti che non ne hanno diritto; o facilitando sempre di più i corridoi umanitari e riaprendo canali di immigrazione regolari. Gli effetti delle migrazioni possono anche essere positivi, soprattutto considerando che l’Europa è un paese in tragico invecchiamento.
Ci rendiamo ben conto, tuttavia, che, come nota Giorgio Gomel, Presidente di Alliance for Middle East Peace Europe, la questione migratoria “evoca un dilemma etico-politico, il contrasto, cioè, fra un’etica dell’ospitalità e un’etica della sicurezza”. Forse, la vera soluzione dei problemi migratori consiste nel riuscire a far coesistere le due etiche, convincendoci che le influenze tra paesi, se ben gestite, possono anche portare qualcosa di positivo.