Una volta che vengono espulsi dalla Germania attraverso la procedura del rimpatrio volontario – differentemente da quanto preannunciato – è molto difficile che i migranti abbandonino il loro desiderio di tornare in Europa. A rivelarlo è la testata tedesca Der Spiegel, che insieme ad un etnologo ha analizzato il caso del Pakistan, una delle principali mete di partenza dei migranti economici diretti verso Berlino.
Non bastano i soldi per eliminare il problema
Secondo la legislazione tedesca, un migrante economico che allo stato attuale sceglie di abbandonare di sua spontanea volontà la Germania riceve una somma di denaro, variabile tra i 3mila ed i 4mila euro, oltre al viaggio aereo a carico delle casse di Berlino. Tale somma sarebbe necessaria per poter riprendere la propria vita nel Paese d’origine ed avere la possibilità, anche a seguito dell’esperienza maturata in Europa, di reinserirsi anche a livello sociale e lavorativo.
Tuttavia, come è stato sottolineato dal professore Usman Mahar al Der Spiegel, tale elargizione non sarebbe sufficiente nemmeno per ripagare dei prestiti i propri familiari e gli eventuali strozzini a cui si è chiesto aiuto per poter affrontare il viaggio verso l’Europa. E anche quando fosse, difficilmente sarebbe sufficiente per garantire un sostegno per il tempo necessario al reinserimento nel mercato del lavoro.
Queste considerazioni – che sono un duro schiaffo nei confronti della gestione migratoria tedesca – gettano inoltre l’ombra di un’altra possibilità: quella di ritentare nuovamente la lunga traversata per ricominciare il percorso migratorio da capo.
Il primo pensiero è quello di riprovarci
Siccome la sussistenza di molte famiglie in Pakistan è garantita dall’occupazione in territorio europeo dei familiari che hanno superato il viaggio migratorio, il respingimento comporta il venir meno dell’unica fonte di liquidità del nucleo familiare. Ed in questa situazione, gli scenari che si aprono davanti al migrante che è stato respinto – o che ha scelto la via del rimpatrio – sono soltanto due: rassegnarsi e cercare un lavoro sottopagato nel Paese d’origine o ritentare un’altra volta di entrare in Unione europea.
In buona parte dei casi la strada scelta è la seconda, denotando un sostanziale fallimento dell’approccio di respingimento della Germania. In questo caso, infatti, la cifra riconosciuta non servirebbe ad altro che a pagarsi un nuovo biglietto aereo ed in un secondo tempo un trafficante di uomini che possa ricondurlo in Europa; rivelandosi un nuovo rischio per la sua stessa persona ed un nuovo ingresso a cui dover far fronte.
Inoltre, non bisogna dimenticare come – nonostante la terminologia utilizzata – nessun rimpatrio sia di fatto volontario, ma fondato su un preciso calcolo costi-benefici da parte dell’interessato. Ed in questo scenario, quando la convenienza del rimanere nel Paese d’origine diverrà nuovamente sconveniente, la via del ritorno in Europa non è per nulla accantonata.
Investire nei villaggi sarebbe più profittevole
Come sottolineato da Mahar, se la Germania investisse direttamente il fondo destinato nello sviluppo dei villaggi dei rimpatriati, non soltanto il migrante più difficilmente abbandonerà nuovamente il territorio, ma anche gli stessi concittadini sarebbero disincentivati a tentare la strada per l’Europa. E tale misura – proposta più volte in modo similare anche da alcuni politici europei – risulterebbe essere azzeccata anche in termini di rischio, impedendo ad un maggior numero di persone di affidarsi a trafficanti di esseri umani per portare a termine il viaggio.
Tuttavia, nel corso degli anni si sono preferite misure volte più a tappare i buchi che a risolvere davvero il problema alla radice, come evidenziato dalla stessa legge tedesca sul rimpatri volontario. Essa si traduce infatti con un pagare per togliersi dai piedi con rapidità un problema, senza considerare come lo stesso si possa riproporre a distanza di pochi anni; limitandosi quindi ad un semplice posticipazione del problema.