Ben si conosce il fenomeno dell’immigrazione nel Mediterraneo. L’Italia, che è tra i Paesi più sotto pressione da questo punto di vista, da più decenni ha a che fare con le rotte migratorie che partono dalla Libia così come dalla Tunisia, dall’Algeria ed anche dal medio oriente. Ma chi pensa che traversate con barconi e barchini costituiscano una peculiarità del Mediterraneo, si sbaglia di grosso. C’è un’altra Libia, un’altra Lampedusa, un’altra emergenza simile in altre parti del mondo. E tra queste a destare maggiori preoccupazioni è la rotta che dal Corno d’Africa porta dritti alla penisola arabica.
Gibuti come base di partenza
Molti cittadini dei Paesi del corno d’Africa ogni anno lasciano le proprie terre per cercare fortuna altrove. Ed anche in questo caso, chi come l’Italia ha una pluriennale conoscenza del fenomeno migratorio bene sa come in tanti si dirigono verso l’Europa ed in particolare verso le coste della sponda italiana del Mediterraneo. Ma il viaggio con destinazione il vecchio continente appare arduo, difficile e molto rischioso. Occorrono fare migliaia di chilometri, attraversare il deserto, finire in Libia e, da qui, aspettare poi dentro alcuni dei più pericolosi centri di accoglienza la “chiamata” verso l’Italia. Episodio emblematico dell’emigrazione dal Corno d’Africa in direzione Europa è quello del 3 ottobre 2013, data del naufragio di Lampedusa in cui a morire sono state più di 300 persone. Molti di quei migranti erano eritrei, segno di come l’emigrazione da questa parte del continente nero appare da sempre molto elevata. Ecco perché da qualche anno a questa parte, chi vuole abbandonare il corno d’Africa si riversa verso il mar Rosso. Piuttosto che addentrarsi tra le dune del Sahara, tra le grinfie dei più efferati criminali operanti in Libia e tra le onde del Mediterraneo, migliaia di persone puntano a salpare direttamente dalle coste del mar Rosso.
Il sogno in questo caso è la vicina penisola arabica, lì dove all’interno delle petromonarchie la richiesta di manodopera è incessante e dove risulta molto più semplice trovare lavoro. Ecco quindi che in tanti si riversano lungo le coste dello stretto di Aden. Qui la stessa parola evoca un attraversamento del mare apparentemente più semplice. Basta partire da una località costiera di Gibuti e, piuttosto che attraversare Sahara e Mediterraneo, dall’altra parte dell’orizzonte c’è già la penisola arabica. Il piccolo Stato africano prima citato, è diventato soprattutto dal 2017 in poi un catalizzatore per i migranti del Corno d’Africa che aspirano a cambiare vita. L’Oim, ossia l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nel 2018 ha stimato in almeno 150.000 il numero delle persone salpate dalle coste di Gibuti.

Località quali quelle di Godorya e Fagal assolvono alla stessa funzione che in Libia hanno cittadine costiere come Sabratha e Khoms. Qui si ammassano in migliaia, pronti ad attraversare lo stretto di Aden e ad arrivare dall’altro capo del mar Rosso. Così come evidenziato sempre dall’Oim, ad arrivare a Gibuti sono soprattutto etiopi e somali. I primi fuggono dalle regioni dell’Etiopia in cui il tanto paventato boom economico ancora non ha portato ad alcuna stabilità. L’altro gruppo è invece composto da coloro che scappano da una Somalia destabilizzata da più di un quarto di secolo. La traversata del mar Rosso non è però meno pericolosa di quella del Mediterraneo: sono diversi ogni anno gli episodi di cronaca che riportano naufragi e stragi di gente che rimane inghiottita dalle onde.
Yemen come la Libia
Ma una volta terminata la traversata, la vita per coloro che arrivano dal Corno d’Africa non appare propriamente agevole. Dall’altra parte dell’orizzonte di Gibuti infatti, non c’è nessuna terra promessa, né tanto meno la meta finale del viaggio. Ad attendere i migranti salpati dall’Africa sono le complessità loro riservate dallo Yemen. Un Paese da cui ci si aspetta in realtà migliaia di partenze di persone in fuga e non certo arrivi da altri territori. A partire dal 2015 il territorio yemenita è sconvolto da una guerra in cui una coalizione guidata dall’Arabia Saudita prova a far indietreggiare i ribelli filo sciiti degli Houti. Bombardamenti e combattimenti costituiscono da cinque anni la quotidianità di un Paese stretto nella morsa del conflitto e della fame. Qui l’emergenza umanitaria ha raggiunto livelli difficilmente riscontrabili da altre parti: milioni di bambini patiscono la mancanza di cibo, scarseggiano le medicine, molte epidemie causate dalla mancanza di condizioni igieniche accettabili incombono.
E lo Yemen è, per la rotta del mar Rosso, ciò che la Libia rappresenta per le rotte del Mediterraneo. Un punto di transito verso la meta finale che, proprio come la Libia, risulta al momento dilaniato da tensioni e conflitti e dove a mancare sono autorità statali e di sicurezza. Questo ha fatto in modo che anche nello Yemen abbiano potuto prendere piede e radicarsi sul territorio decine di organizzazioni criminali che sfruttano l’immigrazione. Gruppi senza scrupoli che stringono nella loro ragnatela migliaia di migranti che vorrebbero raggiungere la penisola arabica. Anche qui, come in nord Africa, si hanno notizie di centri gestiti da criminali, persone rese schiave e torturate, oltre che illuse di andare a vivere in un mondo migliore. Perché, di fondo, possono cambiare i luoghi ma, alla base, il problema è sempre quello: c’è gente illusa da un lato e criminali pronti a sfruttare l’illusione dall’altro.
Il miraggio della penisola arabica
Qui l’illusione sono i grattaceli di Dubai, i cantieri delle nuove grandi moschee dell’Arabia Saudita e quelli degli stadi per i mondiali del 2022 in Qatar. Migliaia di etiopi e di somali vorrebbero lavorare qui, illusi di cambiare vita e di poter portare dall’altra sponda del mar Rosso un po’ di risparmi per la propria famiglia. Un miraggio nel deserto della penisola arabica, che si va ad aggiungere a quei miraggi, questa volta interiori, di migliaia di disperati. Un miraggio però che, proprio come tra le dune arabiche, rischia di sfumare prima ancora del raggiungimento di un’oasi.

Dallo Yemen difficilmente si riesce ad uscire vivi, chi sopravvive non va incontro a quella tanto agognata nuova vita. Anzi, se va bene in tanti vengono catapultati nelle gru dei grandi cantieri, lasciati lì per ore intere a lavorare con paghe misere e con nessuna protezione sociale, per poi essere fatti “accomodare” a dormire in baraccopoli improvvisate all’ombra di grattaceli che hanno trasformato vecchie oasi in miraggi di acciaio e cemento. Poi ci sono, come accade lungo le tratte del Mediterraneo, donne e ragazzine avviate alla prostituzione ed immesse in giri da cui è difficile uscire. Vite quindi sospese, inghiottite dalla necessità di soddisfare la richiesta di manodopera e di arricchire le tasche di criminali incalliti. Un po’, appunto, come avviene tra l’Africa ed il vecchio continente. Cambiano dunque i paesaggi ed i Paesi, ma la piaga dell’immigrazione ovunque presenta il duro conto ad un esercito sempre più folto di disperati.