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I prossimi 10 e 11 dicembre a Marrakech, in Marocco, si terrà la conferenza dell’Onu dedicata al Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration (Gcm), un accordo non vincolante con cui le nazioni firmatarie mireranno a esprimere una volontà politica comune nella gestione dei flussi migratori su scala planetaria.

Negoziato nel 2017, il Global Compact sui migranti è partito ad handicap a causa del rifiuto dell’amministrazione Trump di far partecipare gli Stati Uniti alle negoziazioni; sette Paesi, ovvero l’Australia più sei Stati dell’Europa centro-orientale (Austria, Bulgaria, Croazia, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca) non parteciperanno all’incontro e non firmeranno il protocollo conclusivo. Anche la Slovacchia appare incerta sulla sua posizione definitiva, e persino dalle formazioni di governo della Germania sono arrivate voci critiche.

Gli obiettivi del Global Compact

A destare critiche, nel Global Compact che ha avuto Svizzera e Messico come principali promotori, è la contestata assenza di realpolitik nelle sue articolazioni fondamentali. 

Nella lista dei 23 obiettivi che si prefigge il patto globale, scriveva questa testata, ci sono importanti focalizzazioni sul diritto d’accesso al lavoro da parte dei migranti e, inoltre, “la lotta a xenofobia, lo sfruttamento e il traffico di essere umani. Il patto impegna i firmatari a lavorare per porre fine alla pratica della detenzione di bambini allo scopo di determinare il loro status migratorio; limitare al massimo le detenzioni dei migranti per stabilire le loro condizioni, migliorare l’erogazione dell’assistenza umanitaria e di sviluppo ai Paesi più colpiti e dare maggiore riconoscimento all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim)”.

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Obiettivi che sono accusati di essere orientati sulla base di una spiccata ideologia multiculturalista e, secondo i critici, porterebbero a “limitare la sovranità degli stati dinanzi al fenomeno migratorio, impendendo a questi ultimi di affrontare un fenomeno così complesso con una buona dose di realpolitk e pragmatismo che ogni statista dovrebbe preservare”. Nella dichiarazione il “diritto sovrano” di ogni Stato di attuare la politica migratoria che ritiene più opportuna non è affatto negato.

Le incertezze della Lega sul Global Compact

Il governo italiano non ha ancora preso una posizione definitiva sul tema. Tuttavia, soprattutto dal fronte leghista della maggioranza di governo, si sono levate voci scettiche sul Global Compact. Formiche ha raccolto l’opinione di un esponenti del partito di Matteo Salvini, il senatore Toni Iwobi.

Il primo senatore di origine africana della storia italiana ha dichiarato la sua preferenza per accordi bilaterali che consentano ai Paesi di origine e destinazione dei migranti di coordinare le rispettive strategie, ricordando come in sede Onu “abbiamo discusso e stretto accordi con diverse Nazioni del terzo mondo, in particolare con l’Africa Sub Sahariana. Abbiamo raggiunto intese bilaterali con questi Paesi che dobbiamo, chiaramente, concretizzare in atti formali. Io stesso ho avuto modo di parlare con il presidente del mio Paese d’origine, il Senegal, con cui abbiamo concordato linee da seguire. Due settimane fa il ministro Salvini si è recato in Ghana e il prossimo passo è la Nigeria, un Paese dal quale partono tante, troppe persone ogni anno. I prossimi passi prevedono accordi bilaterali, che sono il vero punto di svolta per la gestione fruttuosa dei flussi migratori”.

I limiti del Global Compact e la necessità di uno sguardo più ampio

La Lega, quindi, sembra orientata a inserirsi nel filone dei critici europei al Global Compact. Dal Movimento Cinque Stelle non è ancora filtrata una posizione ufficiale, ma le parole di Iwobi paiono indicative della volontà del governo di proseguire su una strada che si reputa positiva. Dal canto nostro, è giusto sottolineare come nel Global Compact siano molti gli accenni, alcuni dei quali sicuramente doverosi, alla necessità di garantire ai migranti un trattamento dignitoso nei Paesi di arrivo ma meno quelli alla lotta alle cause che spingono le persone a lasciare il loro Paese.

L’ampiezza del fenomeno e le tragiche conseguenze che per molte persone la scelta di emigrare comporta inducono a una riflessione profonda sul tema delle “migrazioni” e, soprattutto degli aspetti politici e sociologici ad esse connessi. A pensare, in altre parole, se la scelta della tutela delle possibilità di emigrazione per i rifugiati e i profughi di guerre, epidemie, siccità e collassi economici e dei loro canali d’accesso alle società di destinazione, soprattutto occidentali, sia la scelta migliore per tutelare i nuovi dannati della Terra o se la questione possa essere ulteriormente approfondita.

Il Global Compact e il “diritto a non emigrare”

I limiti del Global Compact invitano a ripensare a delle dichiarazioni sempre più attuali di un grande protagonista della storia recente, Joseph Ratzinger. Nell’ottobre 2012, pochi mesi prima di rinunciare al ruolo papale, Benedetto XVI si espresse in maniera significativa definendo l’emigrazione un “pellegrinaggio di fede e di speranza” che troppo spesso finiva per risolversi in tragedia, per colpa “del traffico di essere umani, della povertà e dell’esclusione sociale di cui sono oggetto i nuovi arrivati, soprattutto se donne e bambini”.

Ratzinger si dichiarò favorevole a politiche migratorie che non si risolvessero né nella chiusura indiscriminata né in un simulacro di apertura che fosse presupposto di sradicamento, focalizzando l’attenzione sul “diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra”. 

Il “diritto a non emigrare” è, in sostanza, il diritto per i potenziali migranti e i loro Paesi di provenienza a un rispetto completo capace di prevenire il loro stato di indigenza prima ancora che di limitarne le conseguenze, l’invito a una reale cooperazione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo capace di dare i propri frutti. 

Ma stiamo parlando del presupposto necessario per affrontare in maniera decisa una situazione globale caratterizzata dal più alto numero di migranti della storia umana (240 milioni per ragioni economiche, decine di milioni per il fallimento degli Stati, le persecuzioni o le guerre), migranti la cui esistenza e vita è degna in quanto tale e non solo dopo l’acquisizione dello status di profugo o rifugiato. E che in cuor loro, molto probabilmente, migranti non avrebbero mai desiderato diventare.

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