Uno dei cardini su cui doveva fondarsi la politica migratoria del governo Gentiloni erano gli accordi siglati con la Libia per fermare il flusso di disperati provenienti dal Sahel. Accordi che ricordavano, almeno nella forma, quanto avvenuto ai tempi del governo Berlusconi con Gheddafi, ma che, al contrario di questi ultimi, hanno avuto esiti decisamente minimi, se non completamente nulli. In questo processo di collaborazione tra Italia e Libia, se ancora si può parlare di una Libia come entità statutaria, una delle fasi principali fu l’accordo raggiunto al Viminale fra le tribù del Fezzan per una pace tra di loro e una parallela collaborazione con l’Italia al fine di bloccare la tratta di migranti. Il governo italiano aveva promosso quest’incontro e nello stesso tempo gli aveva dato ampio risalto mediatico, anche per dimostrare all’opinione pubblica italiana e ai partner internazionali che Roma aveva le proprie carte da giocare nello scenario libico.
A pochi mesi da quell’incontro, si può dire senza ombra di dubbio che il fallimento è sotto gli occhi di tutti. L’ondata migratoria appare inarrestabile e anzi, per certi versi dopo quegli accordi è anche aumentata, tanto da far diventare migliaia il numero di migranti che sbarcano ogni settimana sulle nostre coste. Il ministro Minniti fu lodato dalla stampa nazionale come artefice di un patto che metteva fine al disastro generato da sei anni di guerra civile in Libia, e come promotore dell’unico metodo utile per fermare l’ondata migratoria: scendere a patti con il Paese di confine. Tutto ciò non ha funzionato. E non ha funzionato per molteplici ragioni, fisiologiche nel contesto libico, ed in particolare per quanto riguarda il Fezzan, cioè quella vasta regione del meridione libico.
Innanzitutto, c’è un motivo fisico, geografico: il confine meridionale della Libia equivale a circa cinquemila chilometri di sabbia. Una linea indefinita che viaggia nel Sahara, con un confine assolutamente formale più che sostanziale e dove le tribù governano senza che lo Stato possa avere un ruolo primario. Questi cinquemila chilometri di sabbia fanno da confini a Stati i cui governi non sono assolutamente in grado di controllare il proprio territorio, e cioè la Libia, in primis, poi il Ciad e il Niger. In questi Paesi non esiste forza governativa in grado di contrastare efficacemente il traffico di migranti e in generale la costellazione criminale che si è inserita nella tratta migratoria.
A questa caratteristica di vastità e di indefinitezza di un confine desertico, si intreccia poi il problema ben più evidente di scendere a patti con tribù, per lo più bellicose, che non rappresentano alcuna forza statuale. Le tre tribù che s’incontrarono al Viminale, e che sono quelle più rappresentative del Fezzan, cioè Tebu, Suleiman e Tuareg, sono in primis tribù che da sempre combattono tra loro, ma soprattutto non sono entità che possono interfacciarsi con uno Stato sovrano. Le tribù non sono la Libia di Gheddafi: sono per definizione popolazioni che vivono parallelamente a uno Stato e senza avere alcun rapporto incentrato né sul diritto internazionale né sul riconoscimento quali entità giuridiche. Scendere a patti con queste tribù, che tra l’altro non hanno un potere contrattuale né un potere riconosciuto in tutto il Fezzan, significa in sostanza un salto nel vuoto. Tanto più che in sei anni di guerra, le tribù si sono divise anche tra chi sostenere come legittimo governo della Libia, fra chi sosteneva Tobruch, come la tribù Tebu, e il governo di Tripoli sostenuto al contrario dai Tuareg.
È del tutto evidente che le basi così scivolose di questi accordi non potevano che portare a un rapido declino delle speranze degli esiti di questi trattati. In via principale, è l’assenza di uno Stato a rendere di fatto impossibile prevedere accordi realmente coercitivi per le parti in causa. Tre bellicose tribù del deserto, pur attratte dalle promesse d’investimento italiane nel Fezzan e l’aiuto per contrastare la criminalità organizzata legata anche alle reti jihadiste, in realtà non hanno né la forza né la volontà di poter contrastare efficacemente il traffico di migranti su un confine di cinquemila chilometri di sabbia. Ma soprattutto, è l’assenza di certezza del governo della Libia a non poter essere garanzia di stabilità di qualunque tipo di accordi. L’Italia sostiene un governo, quello di Serraj, che per quanto riconosciuto a livello internazionale, non ha alcuna capacità di controllo delle coste, neanche di quelle vicino la capitale, e pertanto è ben difficile pensare che possa controllare l’entroterra. Ma soprattutto non ha legittimazione interna nel momento in cui esistono fazioni che controllano grandi aree del territorio libico e che dispongono di mezzi a sufficienza per rovesciare l’esecutivo. Ragioni per cui era del tutto evidente che gli accordi di Minniti sarebbero rimasti soltanto un tentativo a vuoto, nel ginepraio della Libia post-Gheddafi.