Pubblicamente appare come un uomo dal temperamento mite, con un’immagine sicuramente diversa da chi lo ha preceduto negli anni. Ma Hassan Rouhani, il presidente eletto dell’Iran, nonostante sia nei fatti un politico meno conservatore degli altri e sicuramente più incline al dialogo e alla diplomazia, è stato in grado di dimostrare anche una certa fermezza. Recentemente lo ha fatto soprattutto con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. In una circostanza lo avrebbe persino definito, in modo dispregiativo, soltanto “un costruttore di palazzi”.
Ha molte facce, Rouhani, ma la caratteristica che lo contraddistingue riguarda il suo posizionamento politico. Può essere considerato, almeno secondo i criteri che governano l’Iran, un uomo di centro, visto che da anni è il principale esponente dei moderati. Prima di essere eletto presidente di uno dei più complessi sistemi al mondo (la prima volta nel 2013 e la seconda nel 2017), Rouhani ha ricoperto diversi incarichi di primo piano in molti organismi della sicurezza nazionale del Paese. Ma non solo.
È stato membro dell’Assemblea degli Esperti dal 1992, membro del Consiglio di Discernimento della Repubblica islamica dal 1991, membro del consiglio di sicurezza nazionale dal 1989 e capo del Centro per la ricerca strategica dal 1992. Ma soprattutto è stato anche negoziatore capo con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, riguardo al programma nucleare iraniano. In tutto parla cinque lingue, oltre alla sua (il persiano, l’inglese, il tedesco, il francese, il russo e l’arabo) e ha rappresentato, almeno all’inizio, l’anello di congiunzione fra la fazione riformista (che lo ha sempre sostenuto) e quella conservatrice. È sposato da 51 anni con la stessa donna, la cugina Sahebeh Arabi, da cui ha avuto quattro figli. Nell’aprile del 1992, per la coppia il primo grande lutto, quando morì suicida il primogenito Hossein.
Hassan Rouhani è nato nel 1948 a Sorkheh, nei pressi della città di Semnan, nell’Iran settentrionale. Si dice che la sua fosse una famiglia di oppositori dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, destituito l’11 febbraio del 1979 dopo la Rivoluzione islamica. Il padre, Asadollah Rouhani, fu un importante uomo d’affari nel bazar della sua città natale (luogo dove vive ancora una parte della sua famiglia). Il giovane Rouhani cominciò i suoi studi religiosi al seminario di Semnan nel 1960 per poi trasferirsi, nel 1961, a quello di Qom, città santa e simbolo dell’islam sciita. Insieme alla preparazione spirituale, l’attuale presidente iraniano affiancò una formazione più laica e venne ammesso all’università di Teheran nel 1969. Tre anni dopo, nel 1972, ottenne la laurea in giurisprudenza.
I suoi studi continuarono in Europa, alla Glasgow Caledonian University, dove si laureò con una tesi sul potere legislativo islamico, in riferimento all’esperienza iraniana. Sul periodo dei suoi studi europei persistono ancora numerosi interrogativi: secondo alcuni, infatti, Rouhani avrebbe frequentato in segreto il dottorato a Glasgow negli anni Settanta, sotto il falso nome di Hassan Feridon (che per molti analisti, non è altro che il suo nome alla nascita). Per altri, invece, quel titolo lo conseguì più da adulto, nel 1995.
Probabilmente anche per la sua storia familiare, da subito fu un sostenitore della Rivoluzione islamica dell’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979 (qualità formalmente richiesta a tutti i presidenti iraniani), quando il Paese venne investito da quel fondamentale quanto imponente cambiamento sociale. L’insurrezione, che mise in fuga la famiglia Pahlavi e riportò in patria una delle figure più importanti dell’Iran contemporaneo (Khomeini), affascinò moltissimi giovani. Laici e religiosi. Tra questi, anche il giovane Rouhani, che intraprese proprio in gioventù la sua carriera politica, sostenendo la guida religiosa Khomeini. Dal 1965, iniziò a viaggiare in tutto lo Stato tenendo discorsi pubblici contro il governo dello shah. In qualche circostanza venne arrestato e a lungo le autorità locali (prima della rivoluzione) gli impedirono di tenere discorsi pubblici. Nel 1977, in occasione di una cerimonia, si sarebbe riferito a Khomeini, ancora in esilio in Francia, utilizzando il termine imam. Il gesto gli costò i pedinamenti della Savak, la polizia segreta che la dinastia Pahlavi utilizzava per tenere sotto controllo il Paese. Alcuni religiosi gli consigliarono di lasciare l’Iran e così, in esilio, riprese la sua attività di oratore presso i gruppi di studenti iraniani e, in seguito, raggiunse a Parigi proprio Khomeini.
Dopo la destituzione ufficiale dello shah e l’instaurazione della Repubblica islamica, si consolidò anche la sua carriera: Rouhani si dedicò alla riorganizzazione dell’esercito e di alcune basi militari. Nel 1980 fu eletto all’Assemblea Consultiva islamica e rimase deputato per cinque mandati consecutivi (fino al 2000), ricoprendo la presidenza del comitato per la difesa, per la politica estera e la vicepresidenza dell’organo consultivo. Negli anni della guerra tra Iran e Iraq, Rouhani ottenne la nomina di membro del Consiglio Supremo della Difesa (incarico che ebbe dal 1982 al 1988), membro del Consiglio Superiore di supporto bellico, del comitato esecutivo, vice comandante della guerra, comandante della Khatam al-Anbiya Operation Center, dell’Iran Air Defence Force e, infine, divenne vice comandante in capo delle forze armate.
Al termine della guerra con l’Iraq di Saddam Hussein, Rouhani ricevette la medaglia Fath di secondo grado e fu insignito dall’allora comandante in capo delle forze armate, Ali Khamenei, dell’onorificenza Nasr in occasione della liberazione di Khorramshahr. Dopo la riforma costituzionale del 1988, divenne segretario del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale, rappresentando la guida suprema Khamenei, che successe poi a Khomeini. Mantenne questo incarico per 16 anni, fino al 2005, quando importanti contrasti con l’allora presidente della Repubblica islamica, Mahmoud Ahmadinejad, portarono alla sua sostituzione con un esponente più conservatore. Nello stesso anno, però, Rouhani ottenne un altro fondamentale incarico del panorama contemporaneo iraniano, diventando negoziatore capo all’Aiea nei negoziati sul nucleare. Accanto all’attività politica, che nel tempo si fece più intensa, Rouhani mantenne i suoi impegni accademici, diventando membro del consiglio di amministrazione dell’università di Teheran (dal 1995 al 1999) e presiedendo il centro per la ricerca strategica (curando anche tre pubblicazioni scientifiche e di ricerca).
Quello per l’Aiea è stato l’incarico più importante prima della nomina a presidente della Repubblica islamica. È stato soprannominato lo “sceicco diplomatico”, termine utilizzato la prima volta nel 2003 e riadoperato successivamente in modo estensivo dai media persiani. La sua carriera all’interno dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica iniziò sotto il governo del presidente Hashemj Rafsanjani e continuò anche sotto il suo successore, Mohammad Khatami. Ma anche la nomina come più alto negoziatore terminò con l’arrivo alla presidenza di Ahmadinejad. Anche se durante quel periodo di lavoro, Rouhani e la sua squadra vennero nominati come i migliori diplomatici dal ministero degli Esteri iraniano, in base al loro sforzo nella risoluzione della crisi nucleare e la loro abilità nel creare rapporti di fiducia sulla scena internazionale. Uno dei maggiori successi di Rouhani fu quello di riuscire a evitare, sotto il proprio mandato, che il caso iraniano fosse mandato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per raggiungere quell’obiettivo, alcune componenti del programma nucleare furono temporaneamente sospese. Ma, allo stesso tempo, il Paese riuscì a completare il ciclo nucleare e a compiere passi importanti nella realizzazione del programma civile. Ma Ahmadinejad, una volta eletto, criticò formalmente l’operato di Rouhani, contestandone le scelte, ritenute troppo accomodanti nei confronti dell’Occidente.
L’11 marzo del 2013, Rouhani annunciò la sua candidatura alle elezioni presidenziali, registrando ufficialmente il proprio nome il 7 maggio dello stesso anno. Considerato da tutti uno degli esponenti ideali per via della sua posizione centrista e per i suoi buoni rapporti sia con il clero sciita, sia con il movimento riformista dell’Onda Verde, che dal 2009 si opponeva al governo di Ahmadinejad, iniziava in quel momento la sua ascesa alla politica nazionale. Ricevette l’appoggio di tutti i precedenti presidenti riformisti dell’Iran, come Khatami e Rafsanjani, insieme ad altri esponenti dei movimenti più progressisti, dopo la decisione di Mohammad Reza Aref di ritirare il suo nome dalle presidenziali (sotto consiglio di Khatami). Per alcuni, il suggerimento di farsi da parte doveva servire ad aumentare le possibilità di vittoria di Rouhani. Che, infatti, vinse contro i conservatori.
Stabilito che il suo nome fosse l’unico in grado di contrastare i partiti più reazionari, nel 2013, durante la campagna elettorale, Rouhani fece appello di voto sia ai conservatori tradizionali, sia agli elettori riformisti. Ed essendo tra i sei candidati ammessi alle elezioni dal Consiglio dei Guardiani (l’organo più potente e influente dello Stato) l’unico appartenente al clero sciita, la sua figura riuscì a fare breccia anche nelle sacche più resistenti dell’elettorato conservatore. Secondo quanto riportato anche dal Post, Rouhani era percepito come un conservatore pragmatico, che godeva di una rete d’appoggio piuttosto ampia e sicura. Durante quella competizione elettorale, riuscì infatti ad attirare folle numerose, anche grazie alla sua innata capacità di creare simboli e slogan, diventati ricorrenti tra i suoi sostenitori (capacità sviluppata in gioventù, quando teneva discorsi pubblici prima della rivoluzione). Nel 2013 esaltò l’elettorato promettendo la liberazione di prigionieri politici e giornalisti detenuti in carcere. Ma, soprattutto, si impegnò a garantire più diritti civili. Elemento, quest’ultimo, che affascinò i tanti giovani che, a lungo, avevano osteggiato le politiche repressive di Ahmadinejad.
Durante la sua campagna elettorale del 2013, a differenziarlo dagli altri candidati furono i rapporti con l’estero. Perché, se è vero che Rouhani, almeno all’inizio confermò il fatto che l’Iran rimanesse avversario degli Stati Uniti, specificò che questa rivalità doveva essere funzionale agli interessi del Paese. Così, durante la sua prima campagna elettorale, affrontò il tema più complicato e le sue conseguenze: il nucleare e l’isolamento in cui si trovava l’Iran rispetto alla comunità internazionale. Negli anni in cui Rouhani aveva portato avanti i negoziati sul programma nucleare iraniano con l’Occidente, infatti, i conservatori lo accusavano di essere troppo accondiscendente (tra il 2003 e il 2005, il Paese decise di sospendere le attività connesse all’arricchimento dell’uranio, per ottenere delle concessioni economiche).
Alla fine, però, il 15 giugno del 2013 quelle elezioni, Rouhani le vinse davvero e al primo turno, ottenendo poco più del 50% dei voti (che corrispondono a circa 18,6 milioni di preferenze, il doppio di quelli ottenuti dall’avversario, Mohammad Bagher Ghalibaf), secondo le cifre comunicate dall’allora ministro dell’Interno iraniano, Mohammad Mostafa Najjar. La maggior parte di quei voti arrivò dalla classe media e dai giovani, con supporto maggioritario nelle città più religiose come Mashhad e Qom, ma anche nei piccoli villaggi. La sua vittoria sorprese per il largo margine con cui si concretizzò, anche se l’amministrazione guidata dall’allora presidente americano, Barack Obama, pur rispettando l’esito politico, ne sottolineò la mancanza di trasparenza durante la campagna elettorale, la censura dei mezzi di comunicazione e denunciò alcuni episodi di intimidazione. Ma fu proprio con l’America di Obama che Rouhani si impegnò a riallacciare i rapporti, deteriorati dopo gli otto anni di Ahmadinejad. Nella sua prima conferenza stampa, Rouhani ripeté la sua promessa di apportare profondi cambiamenti alle relazioni del Paese con il resto del mondo. Promise aperture, più trasparenza nel programma nucleare e sottolineò la volontà di risanare l’immagine internazionale dell’Iran, sicuramente compromessa dal suo predecessore populista e conservatore. Nel settembre del 2013, Rouhani scrisse un articolo per il Washington Post dove chiedeva un “approccio costruttivo” riguardo le armi e il nucleare.
Secondo quanto riportato da un’analisi Ispi, sarebbe ingiusto ricordare l’ex presidente soltanto come un ultraconservatore che ha solo fatto ricorso a una retorica aggressiva contro Israele. Ahmadinejad, infatti, è stato anche il politico che, incalzato dagli organismi economici internazionali, abolì i sussidi ad alcuni beni essenziali come la benzina, con il fine di alleviare l’economia iraniana dallo stato di sofferenza in cui versava. Inoltre, in base a quanto ricorda l’istituto, Ahmadinejad è stato tra i principali artefici, dopo anni di stallo, della riattivazione delle negoziazioni sul nucleare con l’Aiea e con il 5 + 1. E quindi, nonostante si ricordi Ahmadinejad come un leader sicuramente più aggressivo, come Rouhani ha dato anche spazio a un pragmatismo di sopravvivenza, utile all’emancipazione (anche economica) del Paese. In netta contrapposizione con il suo predecessore, però, Rouhani, nel 2013, condannò le azioni dei nazisti e le persecuzioni durante l’olocausto.
Ma sicuramente, a livello nazionale, il più importante successo di Rouhani è stato quello di non deludere mai il clero iraniano. È un chierico e il suo titolo religioso è quello di Hojatoleslam, che è una figura di medio rango all’interno della gerarchia religiosa. Durante la sua prima campagna elettorale, infatti, parlò sì di riforme senza mai contraddire né le linee guida delle più importanti autorità religiose, né quelle della guida suprema, l’ayatollah Khomeini. Secondo quanto riportato da Il Post, che ha citato l’agenzia di stampa ufficiale iraniana Fars News Agency, Rouhani alla sua prima elezione spiegò che la sua vittoria dovesse essere considerata come “la vittoria dell’impegno e della religiosità“. La sua prima vittoria, che aveva rappresentato un imponente cambio di rotta rispetto al governo del suo predecessore conservatore, aveva rappresentato il ritorno al potere di un membro del clero sciita e aveva così rafforzato le istituzioni clericali che, nel 2005, si erano divise proprio sull’elezione di Ahmadinejad. Prima di lui, infatti, il Paese aveva avuto diversi presidenti rappresentanti il clero sciita: da Khamenei, ultraconservatore, a Khatami, sicuramente un riformista.
Nel maggio del 2017, Rouhani è stato riconfermato presidente della Repubblica islamica, con il 56% delle preferenze. Anche in quella circostanza, a favorire una sua riconferma, è stata la volontà popolare di portare avanti una politica più aperta, che avrebbe potuto aiutare anche l’economia. La sua rielezione era data come possibile, ma tutt’altro che certa.
Rouhani, pur discostandosi dalle posizioni più radicali e dalla retorica più incendiaria degli ultraconservatori, in passato, contrastò alcune manifestazioni studentesche che, nel 1999, protestavano contro la chiusura di un giornale riformista. In quella circostanza, secondo quanto riportato dal Post, Rouhani disse che i responsabili di atti di sabotaggio e quelli che avrebbero distrutto le proprietà dello Stato avrebbero dovuto essere puniti. Anche con la morte. Negli anni, però, Rouhani si è dichiarato apertamente favorevole al miglioramento della condizione femminile e a una più elevata inclusione delle donne nella società. “Vi devono essere pari opportunità. Non vi sono differenze tra donne e uomini nella creazione, nella loro umanità, nella loro ricerca del sapere, nella loro comprensione e intelligenza, così come virtuosità religiosa nel servire Dio e la gente”, avrebbe detto Rouhani in una delle sue dichiarazioni dopo la sua elezione. Nel settembre 2013, il presidente ordinò la liberazione di 11 prigionieri politici, fra cui sette donne, l’avvocato e attivista Nasrin Sotoudeh e Mohsen Aminzadeh, un politico riformista. L’ordine arrivò pochi giorni prima del suo viaggio negli Stati Uniti per l’Assemblea generale dell’Onu.
In entrambi i mandati, com’è normale che accada in Iran, la politica presidenziale è fortemente influenzata dalla figura della guida suprema, che è, di fatto, il più importante rappresentante politico dello Stato. Nel sistema iraniano, il presidente rappresenta, infatti, la seconda autorità più importante e detiene il potere esecutivo. In realtà, però, il controllo è gestito da un gruppo ristretto costituto da circa 50 persone che limita il potere presidenziale.