Scegliendo di restare in Ucraina allo scoppio della guerra, anziché fuggire come Ashraf Ghani dai talebani in Afghanistan o come Svetlana Tikhanovskaya dalla morsa di Aleksandr Lukashenko in Bielorussia, ha sorpreso i partner occidentali, il Cremlino e gli stessi ucraini, per i quali è diventato una sorta di eroe nazionale. E rifugiandosi nei social network, anziché nei bunker, è diventato il primo leader online in tempo di guerra.
Di Volodymyr Zelensky, il primo “insta-presidente” della storia, si sentirà parlare ancora a lungo: questo è più che certo. Verrà ricordato (e studiato) come pioniere del cine-populismo, definitivo costruttore dell’identità nazionale del popolo ucraino e spianatore dell’era delle guerre cognitive. Ma anche (e soprattutto) per il modo in cui farà pace con la Russia – accettando (e facendo accettare ai connazionali) il ridisegnamento dei confini dell’Ucraina.
Il dilemma di Zelensky: cedere o non cedere?
Zelensky, l’insta-presidente, tra meme, dirette, tour virtuali e videomessaggi, diffusi da Instagram a TikTok, è riuscito nell’impensabile: sabotare il piano A di Vladimir Putin e fare dell’Ucraina il teatro di una guerra per procura alla Russia. E ciò è accaduto perché, disegno intelligente dell’amministrazione Biden a parte, Zelensky ha saputo pionierizzare una macchina propagandistica unica nel suo genere, ad alto impatto, in grado di mobilitare un supporto critico in Occidente e di piantare semi della zizzania nello spazio postsovietico.
I numeri e i fatti sono dalla sua parte: la resistenza civile che ha saputo suscitare è espressione del consenso di cui gode – ma che sino all’anteguerra non era né così scontato né così vasto – e dello storico obiettivo che ha conseguito – per dirla dezaglianamente: fare gli ucraini. Ma non è tutto oro quello che luccica e Zelensky, invero, sarà presto o tardi costretto dal bivio della storia a prendere una decisione sul fato dell’Ucraina. Decisione da cui dipenderà inevitabilmente anche il suo futuro, come uomo e come politico.
Zelensky, agendo da variabile impazzita, ha effettivamente giocato un ruolo-chiave nella grande partita per l’Ucraina. Gli Stati Uniti non avrebbero ottenuto i risultati sino ad ora conseguiti, o comunque li avrebbero ottenuti più difficilmente e/o su scala ridotta, se Zelensky non fosse stato al potere. Ma ciò non toglie che il presidente ucraino sia stato, sia e continuerà ad essere – per Washington – una vittima sacrificabile sull’altare della competizione tra grandi potenze.
Man mano che Stati Uniti e Russia vanno raggiungendo gli scopi prefissati, coi primi che hanno rivitalizzato la NATO e addormentato l’autonomia strategica europea e con la seconda che sta mettendo in sicurezza l’agognato continuum territoriale Crimea-Donbas, per Zelensky si restringono i margini di manovra e aumentano le difficoltà.
Non è ancora giunto il momento della pace, né per gli Stati Uniti – che vogliono massimizzare il profitto estraibile dal conflitto: riempiendo di loro armamenti gli arsenali europei e castrandone le prospettive di crescita, sviluppo e autonomia – né per la Russia – che non ha ancora terminato la traslazione in realtà del piano B –, ma è arrivato, sì, il tempo di pensare alla forma che il dopoguerra dovrà avere.
Gli ucraini hanno parlato
Gli ucraini, sondaggi alla mano, non desiderano una pace cartaginese. Perché la stragrande maggioranza della popolazione – l’82% dei rispondenti –, secondo una recentissima indagine dell’Istituto internazionale di sociologia di Kiev, si opporrebbe ad un accordo di pace che preveda (con)cessioni territoriali alla Russia in qualsiasi circostanza. Una cifra che scende di poco, dall’82% al 77%, restringendo il bacino degli intervistati dall’intera nazione alle parti sudorientali.
I numeri dell’IIS sono carichi di un duplice significato per Zelensky: ha vinto e ha perso allo stesso tempo. Ha vinto perché ha ultimato il tormentato processo di costruzione nazionale degli ucraini, oggi più che mai attaccati alla loro lingua e all’indipendenza della loro terra. Ha perso perché, incitando una resistenza a oltranza e alimentando illusioni di una possibile vittoria, si vede ora obbligato a fare i conti con un’opinione pubblica incurante del fatto che la realtà sul campo impone un compromesso a perdere.
Le vittorie a metà son più delle sconfitte che delle vittorie, dei traguardi mutilati che iniettano rancore e risentimento, alimentando revanscismi e voglie di rivalsa a posteriori, e Zelensky sarà chiamato alla prova della storia – l’ennesima – all’apertura delle trattative di tregua o di pace: portare a casa un risultato che non castri eccessivamente l’Ucraina – da qui le richieste di armi con cui contenere e fermare i russi ad est del Boristene.
Sanzionare ufficialmente, su carta legale, il trasferimento della sovranità di Crimea, Lugansk, Donetsk e altri oblast’ alla Russia avrebbe con elevata probabilità un ustionante ritorno di fiamma per Zelensky. Ma proseguire con la linea dell’intransigenza, in assenza di rifornimenti militari realmente capaci di ribaltare le sorti del conflitto, avrebbe conseguenze disastrose per l’intera Ucraina e la stessa presidenza – dall’aggravamento della depressione economica alla tenuta del tessuto sociale.
Gli ucraini hanno parlato, a Zelensky l’onere di ascoltarli, ignorarli o persuaderli a seguirlo. Dalla decisione che prenderà, che non è semplice, dipenderanno il futuro dell’Ucraina, la sua sopravvivenza come politico, la sua cristallizzazione negli annali di storia e, non meno importante, il proseguimento in una direzione piuttosto che in un’altra della Terza guerra mondiale a pezzi.