Per il momento non si spara, da giugno scorso è in vigore una tregua rinnovata almeno fino a ottobre. Questo però non vuol dire che nello Yemen sia improvvisamente scoppiata la pace. In primo luogo perché nel Paese si continua a morire, tra mine, ordigni inesplosi e l’arma più feroce costituita dalla fame. In secondo luogo perché il territorio continua a essere diviso tra le varie fazioni in campo, senza prospettive per un accordo duraturo. Parlare di Yemen è però obbligatorio: dimenticare una guerra, significa infatti condannare in eterno un territorio.
La situazione militare nello Yemen
La parola che meglio può rappresentare l’attuale contesto militare è quella di stallo. Nessuno degli attori riesce ad avere la forza sufficiente per sovrastare l’altro. Da qui la creazione di specifiche zone di influenza che da anni dividono lo Yemen. A nord e nella capitale Sana’a il territorio è controllato dagli Houti, formazione filo-sciita e sostenuta, seppur non apertamente, dall’Iran.
La parte centrale è invece in mano al governo internazionale riconosciuto, guidato prima da Hadi e da qualche mese invece da Rashad Al-Alimi. Si tratta dell’esecutivo sostenuto in primo luogo dall’Arabia Saudita, intervenuta nel marzo 2015 con una coalizione filo sunnita dopo la presa di Sana’a da parte degli Houti. Una coalizione poi sfaldatasi visti i risultati negativi sia sotto il profilo militare che politico. Non a caso a sud, specialmente nelle zone dell’importante città commerciale di Aden, operano forze indipendentiste sostenute dagli Emirati Arabi Uniti, in un primo momento i principali alleati dei Saud.
Ci sono poi vaste zone desertiche, specialmente a est, dove proliferano i gruppi jihadisti. A partire ovviamente da Al Qaeda e dall’Isis, sempre più forti in territori difficili da controllare per qualsiasi forza impegnata nel conflitto.

A complicare l’attuale quadro è l’eterogeneità delle fazioni sul campo. Spesso la guerra viene vista come un affare tra Iran e Arabia Saudita, impegnati ad armare e sostenere rispettivamente Houti e governo internazionalmente riconosciuto. Ma questa è solo una parte della verità. Anche la dicotomia rappresentata dallo scontro tra sciiti e sunniti è sì una fetta di verità ma che non spiega del tutto il conflitto. La realtà è che la guerra nello Yemen è un drammatico scontro tra fazioni, tribù e gruppi rivali.
Nella coalizione guidata dagli Houti occorre annoverare ad esempio la presenza della Guardia Repubblicana, l’élite dell’esercito yemenita fedele però all’ex presidente Saleh, l’uomo forte del Paese fino al 2012 e alleato Houti dal 2015 al 2017, anno in cui viene ucciso dopo tentativi di riconciliazione con il governo. Le stesse forze governative, oltre a essere composte dall’esercito regolare, sono aiutate da diverse tribù in contrasto con gli Houti. A loro vanno aggiunti combattenti mercenari ingaggiati dalla coalizione filo saudita.
La tregua dei mesi scorsi
Nonostante la superiorità tecnologica e militare messa in campo da Ryad, l’azione voluta dai sauditi non sortisce effetti importanti. Al contrario, forti della conoscenza del territorio, gli Houti tengono botta e anzi accennano negli anni ad alcune avanzate. Come quella nella città portuale di Hodeidah, definitivamente presa dalla coalizione filo sciita nel 2021, o nella città petrolifera di Marib, lì dove però il controllo rimane nelle mani delle forze governative.
Al netto però dei successi militari, gli Houti non hanno la forza per avanzare nell’intero Yemen. Obiettivo quest’ultimo ovviamente fuori portata anche per l’esercito regolare. Da qui lo stallo e la sostanziale ingovernabilità del Paese. Forse per questo gli stessi sauditi, autori di costanti e distruttive incursioni aeree dal 2015 in poi, hanno deciso di sospendere le operazioni militari. Una scelta che favorisce nel giugno del 2022 la firma di una vera e propria tregua dalla durata di due mesi. Di recente lo stop ai combattimenti è stato prolungato fino al 2 ottobre, ma si sta trattando per prolungarlo ulteriormente.
In questo modo la situazione è quantomeno cristallizzata. La capitale, le regioni nord occidentali e il porto di Hodeidah permangono nelle mani degli Houti. La città di Ta’izz, tra le più importanti del Paese, è controllata dal governo ma la provincia circostante è contesa con la fazione rivale. Più a sud ci sono i territori dove vige l’autorità dell’esecutivo internazionalmente riconosciuto, con l’eccezione di Aden, dove permangono i gruppi indipendentisti del sud.

La situazione umanitaria
L’attuale divisione ovviamente impedisce un vero ritorno alla normalità. Il conflitto adesso sembra a bassa intensità, con sporadiche violazioni del cessate il fuoco, ma la situazione dei trasporti, la distruzione delle infrastrutture e la mancanza di veri accordi tra le parti impedisce l’arrivo di aiuti umanitari.
Al di fuori delle grandi città, dove comunque la vita appare difficile già da diversi anni, in molte zone dello Yemen manca di tutto: cibo, medicinali, acqua potabile e altri generi di prima necessità. Nel 2016 l’Onu parla di potenziale grande carestia, tra le più importanti del mondo moderno. Si calcola che milioni di persone non hanno la possibilità di accedere a una regolare alimentazione. La situazione con la tregua non sembra migliorata. E oggi nel Paese si muore più per fame e per malattie non curate che per le bombe.
Il rischio terrorismo
C’è modo che la guerra nello Yemen esca dal dimenticatoio? Paradossalmente, una speranza in tal senso arriva da uno dei problemi più gravi generati dal conflitto. Ossia il forte rischio di infiltrazioni terroristiche. Sfruttando l’instabilità, la mancanza di un forte governo e la natura desertica dello Yemen orientale, Al Qaeda e Isis qui stanno rialzando la testa.
Una fonte di preoccupazioni per l’occidente, il quale potrebbe quindi solo adesso ricordarsi degli scontri che dal 2015 generano morti sotto le bombe e sotto i colpi della fame. Non a caso nei giorni scorsi il presidente yemenita, Rashad Al-Alimi, è stato ricevuto a New York, a margine dell’assemblea Onu, dal segretario di Stato Usa Antony Blinken. Un incontro in cui si è parlato della necessità di prolungare l’attuale tregua e mettere in piedi un vero processo di pace.
Una prima breccia nel silenzio mediatico e diplomatico di questi anni figlia della necessità di mettere un argine al dilagare delle organizzazioni terroristiche. Il rischio molto concreto è di vedere trasformato lo Yemen in una base ideale per i jihadisti da dove attaccare obiettivi occidentali in medio oriente.