Lo scorso 9 agosto, in occasione delle celebrazioni per il 59esimo anniversario dell’indipendenza dalla Francia, il presidente ciadiano Idriss Déby ha tenuto un accorato discorso alla nazione, nel quale ha denunciato lo stato di estrema instabilità nelle regioni più a est del Paese: qui, da alcuni giorni, sono in corso intensi combattimenti tra le comunità Zaghawa e Wadai che hanno già provocato decine di morti. Si tratta di una miccia in grado di scatenare un conflitto su più ampia scala in grado di minare il potere dello stesso Déby?
Conflitti interetnici e questioni irrisolte
Déby, lui stesso di etnia zaghawa, è al potere dal 1990. La sua ascesa ha coinciso con il rovesciamento del regime di Hissène Habré, sostenuto da Francia e Stati Uniti e attualmente in carcere in Senegal con le accuse di stupro, schiavitù sessuale e omicidio di massa: di fatto, Déby è passato in poco tempo dall’essere uno dei più promettenti ufficiali fedeli ad Habré (combattendo e vincendo il conflitto contro le forze libiche del generale Haftar nel 1987), a capeggiare un movimento di ribellione che aveva il suo fulcro proprio nei combattenti zaghawa. Questi ultimi, il cui numero è stimato tra le 200mila e le 450mila persone, sono principalmente pastori nomadi che traggono il loro sostentamento dal pascolo di pecore e cammelli in un’ampia area che copre il Ciad orientale e il Darfur, in Sudan.
La parte ciadiana di questo territorio ricade all’interno della regione di Ouaddaï, abitata dal popolo wadai (noto anche come birgu o maba), un’etnia sedentaria arabizzatasi nel corso dei secoli, e dedita alla coltivazione. Le tensioni tra zaghawa e waddai nascono proprio per il difficile controllo delle risorse, che entrambe le parti reclamano per sé, e si sono intensificate a partire dalla fine del 2018 e ancor più in queste settimane: lo scorso 5 agosto, la morte di un giovane allevatore zaghawa nella sottoprefettura di Wadi Hamra ha provocato la risposta della sua comunità, che ha aggredito con violenza i vicini waddai. La lotta ha provocato un bilancio ufficiale di 37 morti, 44 secondo fonti ospedaliere citate da AFP e TV5Monde, e le forze di sicurezza ciadiane inviate sul posto sarebbero state accolte da colpi di arma da fuoco. L’ultimo incidente mortale di una simile portata risale al novembre scorso, quando 11 persone rimasero uccise durante uno scontro nella zona di Abéché, il capoluogo della regione.
Un’escalation che coinvolge l’intera regione
Nel suo intervento, Déby ha parlato di una situazione “tramutatasi in preoccupazione nazionale (…) una guerra totale nella quale è necessario impegnarsi per fermare coloro che continuano a fornire armi a entrambe le parti. L’emergenza – ha proseguito – si sta estendendo ad altre aree del Paese dove la convivenza interetnica è stata sempre esemplare e pacifica, come nella provincia di Sila, dove abbiamo contato 40 morti da gennaio 2019 a oggi”.
Il “j’accuse” del 67enne presidente è chiaro: i conflitti e le violenze in corso in Libia, Sudan e Repubblica Centrafricana avrebbero condotto a un massiccio flusso di materiale bellico oltreconfine, che avrebbe alimentato le fila di entrambi gli schieramenti. Un traffico che, sempre a detta di Déby, è letale: “Facciamo il possibile per arrestarlo grazie alle nostre forze speciali, ma il giorno successivo il problema del disarmo si ripresenta puntualmente”. Una visione confermata dallo storico Mahamat Saleh Yacoub, che ritiene responsabile di questo sinistro contrabbando l’attuale clima di instabilità politica nel vicino Sudan e in particolare nel Darfur, dove peraltro vivono folte comunità di zaghawa e waddai. Già lo scorso febbraio, Déby si era recato personalmente nella zona, proponendo l’introduzione della corte marziale per giudicare i responsabili delle violenze: un’idea radicalmente bocciata dalle opposizioni, secondo le quali il Capo di Stato, che ha nel frattempo annunciato una sua nuova visita nella regione, senza però fornire una data precisa- dovrebbe cercare di attivare un dialogo costruttivo tra le parti.
Un altro Sudan?
Gli scontri nella regione di Ouaddaï non sono l’unica sfida che il presidente ciadiano è costretto ad affrontare in questi mesi: la sua posizione si sarebbe infatti notevolmente aggravata, e numerosi analisti hanno iniziato a ritenerlo un possibile obiettivo per le frange di opposizione più violente del Paese, come dimostrato dal tentativo di invasione da parte di alcune unità ribelli – per la maggior parte di etnia zaghawa – che lo scorso febbraio avevano tentato di raggiungere la capitale N’Djamena a bordo di una colonna di pickup Toyota equipaggiati con mitragliatrici e artiglieria pesante. L’exploit, rapidamente stroncato dall’aeronautica militare francese, costituisce in ogni caso un segnale forte per gli equilibri in campo nel Paese: da una parte l’esercito ciadiano, costituito per la maggior parte da soldati e ufficiali addestrati dalla Francia e capace fino a poco tempo fa di porre una seria minaccia all’avanzamento di Boko Haram nella regione del lago Ciad; dall’altro, coloro che si dicono insoddisfatti del governo di Déby (anche a causa della forte crisi economica che da tempo infuria nella nazione africana) e contano tra le proprie file numerosi ex militari (e persino familiari) un tempo fedeli al presidente. Proprio questa spaccatura interna tra forze governative e irregolari, che spesso si rifiutano di combattere tra loro per via dei legami che le uniscono, ha provocato un indebolimento della morsa di Déby sul potere interno. Infatti, le continue richieste di aiuto alla Francia e il progressivo rafforzamento delle milizie islamiste dell’Isis e di Boko Haram nel nordest del Ciad non sono che la dimostrazione – e la conseguenza – del forte malcontento che sta iniziando a serpeggiare anche tra i sostenitori del Capo dello Stato.
L’aprirsi di un nuovo fronte, quello del conflitto interetnico tra Waddai e Zaghawa, è un avvenimento destinato a danneggiare ancora di più il già precario equilibrio del regime: un rovesciamento di quest’ultimo, al quale nonostante la loro stessa instabilità interna potrebbero non essere estranei gli attori regionali circostanti (Sudan, Repubblica Centrafricana e Libia), sarebbe un duro colpo per il Ciad, che di colpo si troverebbe un una situazione di vulnerabilità ancora più estrema della quale potrebbero approfittare i miliziani islamisti nonché le frange più intransigenti delle diverse etnie che compongono il Paese. Una nuova grande guerra è destinata ad avere inizio?