A poche settimane dallo scoppio del conflitto in Ucraina, da queste pagine ci eravamo chiesti quale sarebbe stato l’eventuale, futuribile, aspetto di una nuova Unione sovietica qualora Vladimir Putin fosse uscito trionfatore dal conflitto in Ucraina. Un anno e più dopo, le sorti del conflitto sono completamente mutate e l'”operazione speciale” si è rivelata un disastro politico e strategico senza pari. Ma è il cuore d’Europa il luogo ove il conflitto ha scatenato una serie di mutamenti nell‘humus politico sul quale soggiacciono sia la Nato sia l’Unione europea.
Il Baltico: un “lago Nato”
Il vertice Nato di Vilnius di queste ore ha accelerato, in maniera assolutamente imprevista, una serie di processi che saranno innanzitutto geografici, oltre che politici e strategici. Innanzitutto, un fronte che si modifica e si accresce di centinaia e centinaia di km, che andranno armati e difesi. E questo significherà spese, armi, uomini, logistica che chiederanno un ripensamento dell’intera dottrina di difesa della Nato e dell’Europa.
Il primo grande cambiamento riguarderà l’area del mar Baltico. Con l’ingresso della Finlandia (e a breve, a quanto pare, della Svezia) nella Nato, questo mare diventerebbe un lago dell’Alleanza, alle porte di Mosca. Questo porterà indubbiamente la flotta baltica russa a probabili future restrizioni e, in caso di un eventuale conflitto, sarebbe inoltre intrappolata fra due coste (nord e sud) interamente composte da Paesi Nato. L’intera strategia di sicurezza dei Paesi baltici muterà via via: da Nazioni un tempo cuscinetto, si ritroveranno a vivere una rivoluzione copernicana, come ha ricordato il primo ministro lettone, Krisjanis Karins. “Con l’accesso di Finlandia e Svezia, il corridoio di Suwalki, che era il tallone d’Achille della regione, riduce sensibilmente la sua centralità geografica e importanza militare”, ha affermato Karins. Le rotte di approvvigionamento potranno ora operare attraverso il Mar Baltico, grazie anche ai nuovi strumenti di difesa aerea, modificando il livello di sicurezza generale nettamente a favore delle Repubbliche baltiche.
Se l’Ucraina entra nella Nato
Il più problematico dei fronti sarà quello ucraino, nell’eventualità in cui il Paese entri nella Nato. Se i tempi di questa operazione sono ancora ignoti, il consenso sul ritiro del meccanismo Map per Kiev, dovrebbe accelerare la membership tanto anelata da Volodomyr Zelensky. Il nuovo spartiacque tra est e ovest, infatti, dovrà cingere il confine occidentale della Bielorussia per poi volgere verso est, abbracciando il confine orientale dell’Ucraina. Questo porterebbe Russia e Nato ad avere un contatto diretto, che passerebbe proprio dal confine orientale ucraino, senza alcuna camera di decompressione nel mezzo.
I dettagli geografici di questa cortina d’acciaio, tuttavia, restano suscettibili dei risultati che Kiev e Mosca raggiungeranno sul campo. Se è ragionevolmente certo il futuro del Donbass, che presumibilmente resterà sotto il controllo della Federazione russa, ancora più incerto è il destino del confine meridionale dell’Ucraina sino ad Odessa. Il fronte Ue/Nato si confermerebbe sulla costa occidentale del Mar Nero, giungendo però fino a sud, dove si verificherebbero le più importanti novità: la costa meridionale del mare, infatti, diverrebbe di pertinenza dell’Unione Europea. Così come sarà complesso gestire la presenza geopolitica della Bielorussia, fedele alleata di Mosca fino a prova contraria, che si incardina come un cuneo nella tasca creata dalle Repubbliche baltiche, Polonia e Ucraina. Minsk si ritroverà, infatti, con il confine nord, ovest e sud presidiato da forze Nato-Ue (e viceversa).
Il nodo caucasico
Se la Turchia è Paese Nato da ben 71 anni, nel prossimo futuro si dovrà cominciare a parlare di Ankara come di una propaggine dell’Unione Europea. Il confine, dunque, tra Unione e Caucaso si sposterà di almeno 1700 km (calcolati dal confine bulgaro sino a quello Turchia-Georgia) più ad est. Ciò significa che l’Unione Europea confinerebbe direttamente con Georgia, Armenia, Iran, Iraq e Siria. Per quanto riguarda la Georgia, gli ultimi mesi hanno restituito un quadro del Paese decisamente euro-diretto con manifestazioni imponenti: il Paese, già in accordo di associazione con l’Europa, ha recentemente richiesto lo status ufficiale di candidato entro il 2023. Più problematico potrebbe essere il confine diretto con l’Armenia, per almeno due ragioni. La sempiterna idiosincrasia tra Erevan e Ankara per via della delicata questione del genocidio armeno si è aggravata negli anni fino alla chiusura del confine terrestre. Il terremoto del febbraio scorso ha contribuito allo scongelamento di questo delicato confine: il valico di Margara e il ponte stradale che permetteva di attraversare il fiume Aras fino all’altopiano anatolico sono stati riaperti in occasione del passaggio del convoglio umanitario per raggiungere le zone colpite dal sisma. La Turchia aveva chiuso la frontiera nel 1993 durante la prima guerra del Karabakh tra Armenia e Azerbaigian. Dopo la seconda guerra del Karabakh, nel 2020, erano iniziati gli sforzi per normalizzare le relazioni.
Armenia, Iran, Siria e Iraq ai confini dell’Unione Europea
Più complessi sono invece, in generale, i rapporti dell’Armenia con i Paesi occidentali: è stato, infatti, l’unico Paese (a parte la Russia stessa) a votare “no” all’espulsione della Russia dal Consiglio d’Europa il 26 febbraio 2022. La posizione dell’Armenia è in gran parte dettata dai suoi legami con Mosca: è membro dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva a guida russa e ospita una base militare russa (Gyumri) e i suoi confini con la Turchia, l’Iran e l’Azerbaigian sono sorvegliati dalle truppe russe.
Turchia nell’Unione significherà anche confine diretto con Teheran. La condanna occidentale alle violenze degli ultimi mesi e il conseguente acuirsi della durezza del regime contro i manifestanti sono eventi che in un futuro prossimo potrebbero verificarsi alle porte dell’Unione, generando perfino schermaglie di frontiera. Ma anche il confine sud dell’Europa unita verrebbe a mutare: Siria e Iraq non sarebbero più meramente confinanti con Ankara. Questo significherà un progressivo aumento della vulnerabilità di questo fronte, ove sussistono almeno tre dossier geopolitici scottanti: la guerra civile in Siria e l’esodo dei profughi, oggetto già di contrattazione Europa-Erdogan; il complesso peace-rebuilding in Iraq; le sorti della popolazioni curda, che in Europa potrebbe trovare appiglio a nuovi strumenti di autodeterminazione.