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La guerra in Ucraina è arrivata nella giornata del 24 agosto al suo sesto mese. L’invasione russa del Paese limitrofo ha aperto il Vaso di Pandora della competitività tra le potenze, riportato il conflitto tra Stati nel cuore del Vecchio Continente, scatenato un’accelerazione della crisi energetica in preparazione da diversi mesi. In poche parole, è stata una creatrice sistemica di instabilità e incertezza. Contribuendo a segnare il destino di diversi esecutivi (da quello di Naftali Bennett in Israele a quello di Mario Draghi in Italia), a cambiare i rapporti di forza tra le potenze, a far saltare ogni prospettiva di riapertura del dialogo tra Russia e Occidente, a segnare una volta per tutte la fallacia del mito della “fine della Storia”, chiudendo il lungo (dis)ordine globale aperto dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989.

Il caos strisciante diventa palese

La fine della Guerra Fredda è stata in realtà la fine della pace, l’Ucraina è l’ultima e più drammatica tessera di un domino apertosi nel 1990-1991 con la prima guerra del Golfo, proseguito con la destrutturazione di diversi Paesi strategici (Jugoslavia, Siria, Libia), e dalla lunga ordalia afghana, dalle guerre ai confini dell’ex Unione Sovietica, dall’avvio della transizione multipolare segnato dall’ascesa della Cina, con conseguente timore statunitense. Mentre l’ascesa del terrorismo internazionale, la crisi finanziaria del 2007-2008, quella dei debiti europei del 2010-2012, l’emergenza climatica e la pandemia di Covid-19 inauguravano il lungo secolo delle emergenze, la globalizzazione subiva un colpo dopo l’altro mentre, paradosso dei paradossi, il mondo si faceva sempre più interconnesso e interdipendente.

Il caos strisciante delle relazioni sempre più competitive tra le nazioni e il fiume carsico della rivalità tra le potenze sono culminati e giunti in superficie nella notte del 24 febbraio 2022, quando la Russia di Vladimir Putin invadendo l’Ucraina di Volodymyr Zelensky ha violato due dei grandi perni securitari che avevano frenato la conflittualità tra blocchi nella Guerra Fredda. In primo luogo, il rifiuto di confronti diretti o per procura tra blocchi nei punti caldi dell’Europa; in secondo luogo, il superamento del conflitto tradizionale ad opera delle grandi potenze.

L’Europa, campo di battaglia

E sei mesi dopo questo fatto di portata enorme, epocale l’Europa si ritrova campo di battaglia, in senso reale e metaforico. In senso reale: la guerra è tornata svegliando definitivamente il Vecchio Continente dal suo torpore post-storico che neanche il dramma balcanico degli Anni Novanta aveva fatto cessare. I missili e le bombe sono cadute a pochi chilometri dai confini dell’Unione Europea e della Nato, città di antica tradizione come Kiev e Belgrado divenuti bersagli. La “guerra civile” del Ruskij Mir ha portato in trincea l’Europa. La quale riarma, a partire dalla Germania che, si sa, quando sceglie di mettersi l’elmetto fa tremare il Vecchio Continente.

In senso metaforico: la guerra del gas e la sfida “psicologica” con la Russia sulle sanzioni sono vere e proprie partite belliche in forma ibrida e asimmetrica in cui l’Europa è oggetto, più che soggetto, delle relazioni internazionali. E l’Unione Europea si trova, assieme ai suoi Paesi membri, esposta alla dolorosa complessità delle relazioni globali. Mentre l’inverno si preannuncia una vera e propria ordalia di fronte al rischio che l’interruzione delle forniture del gas russo faccia piombare il gelo sul Vecchio Continente.

La Russia, impero fragile

Fragile l’Europa, ancora più fragile si è dimostrata su molti punti di vista la Russia putiniana. Che nell’azione militare ha provato a esprimere la sua filosofia geopolitica e strategica: fare della proiezione in armi oltre i propri confini il potere frenante, il kathekon, contro un declino sistemico da tempo misurabile sotto ogni profilo su cui si determina la potenza, dall’economia alla demografia. La guerra in Ucraina mostra che anche le forze armate russe hanno molto da ricostruire, in quest’ottica, per tornare ai livelli di efficienza che a loro competevano, segnala la presenza di disorganizzazioni, bassi livelli di morale tra i combattenti, scarsa capacità di coordinamento e falle nell’intelligence ma anche una discreta resilienza.

Falliti i blitz su Kiev e Kharkiv, la Russia ha iniziato una metodica e graduale avanzata nel Donbass conteso; ha inalberato la questione politica della liberazione delle terre “irredente” al posto del decaduto mito della denazificazione e demilitarizzazione di un regime ucraino ritenuto illegittimo. Ha, su scala limitata, conseguito successi e moderate avanzate, che le hanno permesso inoltre di giocare le sue carte per capire fino a che punto i suoi avversari politici potessero spingersi nel contrasto a Mosca.

E sulle sanzioni si è visto come, nonostante tutti gli errori, la Russia ha ancora diverse frecce al proprio arco: la fenomenale strategia monetaria e di economia di resistenza di Elvira Nabiullina ha depotenziato sia le velleità giacobine di Putin, desideroso di andare a un rovinoso scontro frontale in campo economico e valutario con l’Occidente, che i timori profondi di molti operatori finanziari di Mosca, i quali temevano le conseguenze di una fuga di capitali massiccia. Scommettendo sul fatto che l’Occidente non avrebbe potuto, in tempi brevi, sganciarsi dalla dipendenza del gas russo la Nabiullina ha imposto la strategia di conversione delle entrate in valuta straniera in rubli per difendere il cambio e evitare il collasso del Paese. A prezzo di una recessione industriale notevolela Russia riesce a fare tesoro delle esportazioni di gas e petrolio, sfruttando l’ondata rialzista dei prezzi, e a guardare a nuovi mercati (Turchia, Cina, India) per rompere l’isolamento. Ma non è detto che dopo sei mesi di guerra insistere nel tiro alla fune anche con la minaccia di lockdown energetici invernali possa essere una strategia praticabile.

L’Ucraina, diventata nazione

Per l’Ucraina, invece, la guerra con tutti i suoi drammi e le sue contraddizioni sta assumendo i contorni di vero e proprio conflitto d’indipendenza nazionale. Nella guerra l’Ucraina si è scoperta “altro da sé” rispetto alla Russia: il grande errore di Putin, con l’invasione, è stato proprio quello di separare, forse per sempre, una storia comune tra due popoli indissolubilmente legati.

Volodymyr Zelensky, il presidente eletto nel 2019 per porre fine al conflitto nel Donbass, l’ex comico russofono che parlava incespicando l’ucraino e era stato messo nel mirino dai nazionalisti più radicali, l’allievo dell’oligarca Igor Kolomoisky divenuto tribuno populista si è scoperto portavoce dell’identità nazionale. Comandante assediato nella sua capitale prima, capo di Stato intento a centralizzare il potere in direzione dello sforzo bellico poi. Zelensky ha scommesso sulla mobilitazione europea e globale a favore dell’Ucraina, Paese che si è trovato aggredito e posto sotto assedio, ricevendo in un primo momento un sostegno fondamentale da parte di Usa e blocco Nato, ma trovandosi in un secondo momento nella difficile situazione di dover convivere tra il timore della Russia e il rischio di divenire strumento della guerra per procura occidentale.

L’Ucraina ora è nazione a trecentosessanta gradi. Non è però ancora Stato. I vistosi limiti alla democrazia interna si sono acuiti (non era difficile immaginarlo) con l’emergenza bellica. L’economia è pressoché allo stremo e sempre più egemonizzata dai pochi oligarchi fedeli a Zelensky. Il gap con l’Unione Europea appare sempre più vistoso. L’Ucraina ora esiste come nazione a tutto tondo, ma esisterà ancora nella sua forma attuale dopo la guerra? La scarsa possibilità di intravedere vie d’uscita diplomatiche al conflitto lascia aperto questo dubbio.

Sullo sfondo, il grande gioco Usa

Il primo tempo della guerra in Ucraina, il lungo semestre che sta sconvolgendo l’Europa sta avendo, ad oggi, un vincitore di fatto sul piano strategico: gli Stati Uniti. Certo, gli Usa pagano e non poco molti contraccolpi globali della guerra, come ad esempio l’effetto sulla feroce inflazione che colpisce le economie occidentali e sono caduti in recessione tecnica. Ma guardando alla lunga durata e alla posizione strategica di Washngton nel mondo la nazione guidata da Joe Biden ha potuto approfittare delle circostanze e degli eventi.

Senza mai governare gli accadimenti, spesso assecondandoli ma ancor più frequentemente mettendosi ad essi in scia, gli Usa hanno approfittato di diverse circostanze. L’invasione stessa, lo dicevamo a conflitto iniziato da poche ore, è stata la prima sconfitta di Vladimir Putin, che ha gettato alle ortiche la tessitura diplomatica dei mesi precedenti; in secondo luogo, Washington ha avuto servita l’Ucraina come partner su un piatto d’argento e potuto giocare a suo piacere l’arma del conflitto per procura aumentando o diminuendo le forniture d’armi a Kiev a seconda delle circostanze. Terzo punto è stata la sostanziale destrutturazione dei progetti di autonomia strategica europea potenzialmente alternativi all’atlantismo ferreo. La Nato ha messo sempre più piede in un’Europa divisa e l’ingresso di Svezia e Finlandia nell’alleanza guidata da Jens Stoltenberg ne è un simbolo.

Paesi come Francia e Germania, inoltre, non possono più fare a meno di ascoltare i desiderata della superpotenza. Emmanuel Macron prova con ogni arma a disposizione a giocare una carta diplomatica dopo l’altra per frenare le mattane belliche di Putin, mentre Olaf Scholz ha dato una virata sempre più atlantica alle sue relazioni estere. La fine della “GeRussia” a cui hanno lavorato Gerhard Schroeder e Angela Merkel è la quarta tessera del domino Usa.

Quinto punto è il rilancio della centralità geoeconomica di Washington. Capace di dettare i tempi all’Europa in campo valutario, invertendo il rapporto creatosi ai tempi di Mario Draghi e della sua tenuta alla Banca centrale europea, aprendo a politiche di contenimento dell’inflazione e di rialzo dei tassi che scaricano sul Vecchio Continente i costi di gestione di un’economia surriscaldata dalle politiche anti-Covid. L’esportazione di costoso gas naturale liquefatto made in Usa e le copiose commesse militari in arrivo fanno il resto.

L’Europa è divisa e questo è funzionale alla strategia Usa. La quale mira ora a compattare l’Occidente espanso (la Nato, il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e via dicendo) in una “Nato mondiale” capace di giovarsi della rivalità tra Russia e Paesi legati a Washington per puntare il vero obiettivo di Washington, la Repubblica Popolare Cinese. La storia si mette in moto ed è sempre più competitiva. I primi sei mesi di guerra in Ucraina hanno cambiato l’Europa e, in prospettiva, il mondo. Ora che l’inverno si avvicina, il conto degli sconvolgimenti inizia a essere sempre più forte. E ci si chiede se sia possibile trovare una via d’uscita. Nulla può essere perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra, diceva nel 1939 alla vigilia del secondo conflitto mondiale Papa Pio XII. Ma la volontà di trovare una via d’uscita a questo pantano sembra scarseggiare, nonostante le speranze accese nei mesi scorsi. E i mesi prossimi si prevedono forieri di nuovi sconvolgimenti legati a un conflitto che ha, come pochi eventi nel secondo dopoguerra, segnato una cesura storica.

 

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