Sono passati piĂą di sette mesi oramai da quando il territorio del Nagorno Karabakh è stato isolato completamente dal resto del mondo a causa della chiusura da parte del governo dell’Azerbaijan del corridoio di Lachin. La sola arteria che mette in comunicazione l’Armenia con l’auto proclamata Repubblica dell’Artsakh e che, prima del blocco stradale, vedeva il transito quotidiano di 400 tonnellate di beni di prima necessitĂ  destinati agli armeni del territorio conteso. Dal 12 dicembre 2022 oltre 120’000 persone; uomini, donne e bambini armeni, vivono completamente accerchiati e in ostaggio delle forze di Baku. Il blocco stradale, che in una prima fase era stato installato da gruppi di sedicenti ecoattivisti che sostenevano di condurre la loro azione per protesta contro le attivitĂ  estrattive nella regione, nell’ultimo mese è stato sostituito da un presidio permanente delle truppe regolari di Baku e la situazione in Karabakh si è aggravata ulteriormente dopo che il 15 giugno è stato negato l’accesso al territorio conteso a qualsiasi veicolo compresi i mezzi della Croce Rossa Internazionale accusati dal governo azero di trasportare merci di contrabbando.

Da allora le condizioni dei civili del Nagorno Karabakh sono precipitate aggravando una crisi umanitaria che sta degenerando di ora in ora e che non si arresta nonostante gli appelli dell’Europa, degli Stati Uniti, di Amnesty International, di Human Rights Watch e anche del Tribunale dell’Aja, che il 6 luglio ha di nuovo invitato l’Azerbaijan alla riapertura del corridoio di Lachin scrivendo in un comunicato: “ negare il diritto alla libera circolazione di persone, veicoli e merci costituisce plausibilmente una discriminazione razziale”.

L’accesso al territorio conteso è vietato agli stessi cittadini armeni del Nagorno Karabakh che si trovano in Armenia e sono impossibilitati a tornare alle loro case e ovviamente l’ingresso è interdetto anche a tutti i giornalisti internazionali. L’unico modo per conoscere la realtà dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh è osservare i video che inondano la rete e i canali social. Supermercati completamente vuoti, file chilometriche per poter ricevere una pagnotta e una manciata di sale, ospedali senza medicine, distributori di benzina chiusi. Nei villaggi e nella capitale non si trovano più beni di prima necessità, frutta e verdura sono esauriti, la benzina viene razionata e risparmiata unicamente per i mezzi di soccorso, feriti e ammalati terminali in alcuni casi non hanno potuto essere evacuati in Armenia e si contano già dei morti, e inoltre le forniture di energia e gas vengono continuamente interrotte.

“C’è un enorme carenza di prodotti essenziali: verdure fresche, frutta, latticini sono praticamente introvabili. I negozi sono vuoti e ogni mattina arrivano pochi prodotti dai magazzini che stanno piano piano svuotandosi. Fin dal mattino presto fuori dai centri di distribuzione dei beni di prima necessitĂ  ci sono code chilometriche per pane, latticini e uova. Ma nell’ultimo mese è persino inutile fare la fila per ricevere la propria razione. Le persone si mettono in coda molto presto, dalle 3-4 del mattino, e in molti tornano a casa a mani vuote dopo aver aspettato per 5 o 6 ore”. Anush Harutyunyan è una professoressa universitaria della Shoushu Technological University, madre di quattro figli e rimasta vedova dopo che suo marito è morto nella guerra dei 44 giorni del 2020.  Contattata telefonicamente ha così raccontato la sua vita a Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, dove la quotidianitĂ  è scandita dalla privazione e dalla paura: “La mia paura è l’incertezza su cosa accadrĂ  domani, e per domani non intendo il futuro, ma letteralmente cosa accadrĂ  tra 24 ore, poichĂ© abbiamo problemi esistenziali. Non sappiamo cosa farĂ  domani l’Azerbaijan, come le grandi potenze vogliono comportarsi, di chi saremo il bersaglio, chi ci userĂ  per ricattare chi e di quale grande-gioco geopolitico siamo divenuti pedine. Non sappiamo se ci sarĂ  una nuova aggressione, o peggio ancora se saremo condannati a divenire forzatamente cittadini dell’Azerbaijan. Questo è lo scenario che mi fa piĂą paura di tutti, per me e per i miei bambini. Come possiamo vivere liberi e in pace in un Paese che predica da decenni l’odio contro gli armeni attraverso una retorica anti armena propagandata sin dalle scuole primarie?”.

Quanto sta accadendo ora è il prosieguo, o una nuova fase, del conflitto che, nel 2020, dopo che l’esercito di Baku aggredì il territorio del Nagorno Karabakh, sconvolse per 44 giorni la regione contesa e terminò con la vittoria dell’esercito azerbaigiano e la firma dei tratti di cessate il fuoco del 9 novembre. Stando agli accordi siglati con la mediazione di Mosca il corridoio di Lachin dovrebbe consentire il transito di mezzi e persone tra Armenia e Artsakh e rimanere sotto controllo del contingente delle forze di pace russe, ma nulla di tutto ciò sta avvenendo. Se dal lato azero si registrano violazioni di quanto sottoscritto a termine del conflitto, dal lato russo invece si riscontra un immobilismo e un atteggiamento ondivago e traccheggiante. Le forze russe infatti non sono intervenute per riprendere controllo dell’strada che collega il Karabakh e l’Armenia e, sebbene dai soldati di Mosca sia stato posto all’ingresso di Stepanakert un ritratto di Putin con la scritta “uomo dell’anno”, in Armenia e in Artsakh il leader del Cremlino è sempre più impopolare. A riprova di ciò va considerato, oltre all’atteggiamento pilatesco dei soldati russi schierati in loco, anche un aumento delle tensioni politiche negli ultimi mesi tra Yerevan e Mosca e il fatto che il Cremlino è il principale fornitore di armi all’Azerbaijan, oltre che di gas che viene poi triangolato in Europa aggirando così le sanzioni.

Nelle ultime ore le affermazioni del presidente armeno Nikol Pashinyan che ha dichiarato che, senza una firma di un accordo di pace una guerra è molto probabile, e quelle del presidente azero Ilham Aliyev che ha ribadito, durante il Global Media Forum tenutosi a Shushi il 21 e il 22 luglio 2023: “Se l’Armenia accetta una clausola in cui si astiene completamente da qualsiasi rivendicazione territoriale contro l’Azerbaigian, penso che sarĂ  davvero possibile firmare un trattato di pace entro la fine di quest’anno. In caso contrario non ci sarĂ  pace”, fanno temere che una escalation armata nel Caucaso sia piĂą certa che possibile e questa volta, visti anche gli attacchi condotti dall’Azerbaijan al territorio armeno nell’ultimo anno, il rischio è che coinvolga direttamente  Yerevan e Baku facendo precipitare la regione in una spirale di conflitti e violenze estremamente feroci e drammatici.

Se per la geopolitica la regione del Caucaso meridionale è ora campo di analisi e previsioni su un possibile conflitto e scenario bellico non troppo remoto, per la popolazione del Karabakh il dramma invece si sta giĂ  consumando e di giorno in giorno è sempre piĂą spietato. Vahagn Khachatryan, giornalista del settimanale Aparaj ha così commentato la situazione: “A causa della mancanza di benzina quasi tutte le attivitĂ  produttive e agricole si sono fermate, la gente deve fare la fila davanti ai negozi vuoti per procurarsi del cibo e a volte c’è chi torna a casa senza niente, c’è assenza di tutto ma la nostra piĂą grande e ultima paura non è la mancanza di cibo, di benzina o di farmaci, ma essere esiliati con forza dal luogo dove abbiamo vissuto per migliaia di anni e non capisco come il mondo possa rimanere indifferente difronte a quanto sta avvenendo”.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.