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A partire dal 13 maggio, giorno della telefonata tra Lloyd Austin e Sergej Shoigu – la prima dal 18 febbraio –, qualcosa sembra essere cambiato in e attorno l’Ucraina. Un’apparenza, un presentimento di una possibile piega degli eventi, che dovrà trovare riscontro e conferma negli sviluppi dei prossimi giorni. Perché se è vero che una rondine non porta la primavera, lo è altrettanto che uno stormo può essere il preludio di un cambio di stagione in divenire.

Quanto accaduto dal 13 al 16, dalla conversazione telefonica Austin-Shoigu alla fine della questione Azovstal – con annesso il passaggio (prevedibile e inevitabile) di Mariupol dall’Ucraina alla Russia –, sembra suggerire che vada approssimandosi il momento della svolta. Entrambi i contendenti, invero, hanno raggiunto i loro obiettivi primari e ciò potrebbe facilitare l’arrivo della tregua. Ma non sarà questione di giorni né di settimane.

Prove di distensione

13 maggio: Lloyd Austin e Sergej Shoigu parlano al telefono di cessate il fuoco e mantenimento dei canali di comunicazione. Una conversazione fugace ma estremamente importante: il Cremlino ha smesso di rifutare le richieste di chiamata provenienti dalla Casa Bianca. Soltanto pochi giorni prima, curiosamente, i due governi avevano dato semaforo verde ad uno scambio di ostaggi: Trevor Reed per Konstantin Yaroshenko. Segnali. Messaggi da decifrare.

Tre giorni dopo, il 16, la distensione ha cominciato a prendere una forma ancor più tangibile. In una sola giornata, invero, l’Eurocomissione ha dato il via libera ai pagamenti del gas in rubli da parte dei 27, Vladimir Putin ha dichiarato che l’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza Atlantica non costituisce una minaccia diretta alla sicurezza nazionale della Russia – sconfessando implicitamente il casus belli della guerra in Ucraina, cioè l’espansionismo dell’apparato militare euroatlantico – e la presidenza Zelenskij ha accettato la caduta di Mariupol. A fare da sfondo, in aggiunta, un altro possibile scambio di ostaggi tra Russia e Stati Uniti. Distensione fattuale.

I perché della distensione

Le prove di distensione tra Stati Uniti e Russia non sono che l’ennesima prova del fatto che in Ucraina si sta combattendo una guerra per procura. E se prove di de-escalation sono in corso, è appunto perché sia gli Stati Uniti sia la Russia hanno raggiunto i loro obiettivi primari dentro e fuori la trincea:

  • L’amministrazione Biden ha massimizzato il profitto estraibile dal tranello orchestrato all’omologo russo, ottenendo in soli due mesi e mezzo ciò che i predecessori non erano riusciti ad avere in sei anni, ovverosia il congelamento del Nord Stream 2, il rafforzamento dell’Alleanza Atlantica – ieri cerebralmente morta, oggi più viva che mai – a detrimento dell’autonomia strategica europea, il disaccoppiamento economico ed energetico di UE e Russia e la piantatura di semi della zizzania lungo l’asse Parigi-Berlino – con la complicità dei Verdi e del ritorno tedesco nella storia.
  • La presidenza Putin, dopo aver abbandonato il proposito del cambio di regime, ha ripiegato sul piano B, cioè la costruzione di un continuum territoriale tra la penisola crimeana e le repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, securizzando a tempo indefinito la propria posizione nel Mar Nero – rafforzata dalla presa del Mar d’Azov –, e ibernando il processo di integrazione dell’Ucraina nella sfera d’influenza euroamericana.

Non è inoltre da escludere che Biden e Putin stiano manifestando una maggiore predisposizione al dialogo perché, per ragioni diverse, sicuri e/o fiduciosi di aver rispettivamente gettato le fondamenta del prolungamento del momento unipolare e dell’arrivo dell’agognato multipolarismo:

  • Biden è stato testimone delle purghe che hanno dilaniato la piramide del potere del sistema putiniano e delle proteste pacifiste che hanno attraversato lo spazio postsovietico, dalla Georgia al Kazakistan, nonché il regista di una “guerra economica totale” senza eguali nella storia – più di 6.000 sanzioni separate, includendo la fuga di oltre 1.000 grandi marchi dal mercato russo, che han fatto della Russia il paese più sanzionato di sempre – e della trasformazione dell’Ucraina in un campo di logoramento plasmato dagli insegnamenti dell’Afghanistan, dell’Iran-Iraq e della “guerra senza limiti” di stampo cinese. La speranza-aspettativa è quella di un collasso a posteriori del sistema putiniano, con lo sguardo rivolto al 2024 – anno delle attesissime presidenziali sia a Mosca sia a Washington.
  • Putin confida nei riverberi potenzialmente positivi della cosiddetta operazione militare speciale, in particolare nell’annichilimento dell’Ucraina quale catalizzatore di una “paralisi finlandese” nello spazio postsovietico – Helsinki restò rigidamente e passivamente neutrale per l’intera durata della Guerra fredda – e nella reazione del Rest alla chiamata alle armi del West l’Atto primo di quella transizione multipolare oramai in fermento da anni.

Verso la pace?

Nella distensione di metà maggio si intravedono i segni di quella che potrebbe essere la pace di piombo di domani. Una pace basata su di una Ucraina mutilata, cioè privata di qualsivoglia capacità rigenerativa – dalla distruzione dell’infrastruttura militare-industriale alla perdita di ingenti giacimenti di risorse strategiche –, e su di una Russia rafforzata dal punto di vista della proiezione strategica in Europa – via Bielorussia e Mar Nero. Una pace di piombo perché sarà il frutto di una guerra su larga scala, fonte di rancori velenosi destinati a permanere e a plasmare gli immaginari collettivi occidentale, russo e ucraino, e la cui integrità dipenderà dall’evoluzione della competizione tra grandi potenze.

Gli eventi che hanno contraddistinto la prima parte di maggio sembrano, dunque, essere preconizzatori di un più ampio processo di de-escalation dato dalla combinazione di obiettivi primari conseguiti e di nebbia di guerra diradatata – cosa, quest’ultima, che ha aperto gli occhi al fronte filo-occidentale sul fatto che circa il 15% del territorio ucraino è ora sotto il controllo informale o formale russo. Ma questo non significa che la pace sia necessariamente all’orizzonte.

Se l’obiettivo della dottrina Austin dell’amministrazione Biden è il logoramento della Russia, tre mesi di ostilità non sono sufficienti a provocare un dissanguamento dell’Orso tale da condurre ad un remake dell’invasione sovietica dell’Afghanistan e da permettere un riorientamento a 360 gradi nell’Indo-Pacifico. E, similmente, se l’obiettivo di Putin è la messa in sicurezza dell’Ucraina sudorientale, servirà (molto) tempo per far accettare alla popolazione occupata il nuovo status quo. La partita per l’Ucraina, in breve, è ancora aperta.

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