La ritirata del dispositivo militare russo a levante del Boristene potrebbe essere ricordata come il momento apicale e spartiacque della guerra in Ucraina. Momento corrispondente all’inizio ufficiale delle trattative sulla futura conformazione geografica delle terre ucraine, dopo mesi di riflessioni, messaggi subliminali e ripensamenti.
La (non) reazione degli Stati Uniti all’incidente di Przewodów, intravisto dall’ala più oltranzista dell’alleanza di Ramstein come un’opportunità per elevare ulteriormente il livello del confronto, sembra suggerire che i tutori dell’Ucraina ritengano sia giunto il momento di pensare con serietà al futuro armistizio.
La geografia sarà, con elevata probabilità, il punto di partenza del tavolo negoziale. E la geografia consiglia di fare del Boristene la naturale parete divisoria delle due Ucraine, l’una occidentale e l’altra russa. La cristallizzazione concordata dei mutamenti territoriali occorsi l’estate e l’autunno nel nome della realpolitik. Ma non sarà semplice convincere ucraini e russi ad accettare una vittoria mutilata. Potenziale fonte di recriminazioni interne negli anni a venire.
Gli Stati Uniti sono pronti, e gli altri?
“L’espulsione dei russi dall’Ucraina, Crimea inclusa, non è una probabilità alta“, mentre è plausibile, invece, una “ritirata dei russi” sulla base di una “soluzione politica” – soluzione che andrebbe negoziata “quando si è all’apice della forza e l’opponente è all’apice della debolezza“. Così ha chiosato il generale Mark Milley, capo di stato maggiore degli Stati Uniti, il 16 novembre. Milley, lo stesso ventriloquo di Joe Biden che esattamente una settimana prima, il 9, invitava russi e ucraini “a cogliere l’opportunità di negoziare“.
L’amministrazione Biden non sta abbandonando l’Ucraina, terra che le grandi logiche geostrategiche rendono irrinunciabile: le sta illustrando la via da seguire per massimizzare il profitto ricavabile dal momento di difficoltà della Russia. E questa via difficilmente implicherà paci cartaginesi, alla Versailles, sia perché gli Stati Uniti hanno già conseguito gli obiettivi prefissati – dal ricompattamento della NATO alla spaccatura della GeRussia – sia perché gli sforzi di tornare allo status quo ante bellum potrebbero spianare la strada a scenari da hic sunt leones.
Il tavolo negoziale è pronto. Attende soltanto che i commensali prendano posto. Milley, con le sue dichiarazioni, ha invitato russi e ucraini a sedersi. Lo ha capito Mykhailo Podolyak, il consigliere di Volodymyr Zelensky, che la mattina del 18 ha parlato della possibilità che il conflitto si fermi senza che i russi si ritirino dai territori occupati. E dovrebbe capire che il momento propizio per scendere in campo è giunto, o manca poco, anche la grande assente di questa fase: l’Europa.
La storia insegna che…
Su queste colonne sottolineavamo come con la guerra in Ucraina Biden potesse cantare vittoria già nelle prime ore della sciagurata iniziativa russa. Abbiamo ricordato il trauma del ritorno profondo della Storia in Europa e sottolineato con attenzione il fatto che uno dei dati principali legati al conflitto fosse il pieno coinvolgimento dell’Europa stessa nella Guerra Fredda 2.0. Si è rotto uno dei presupposti di un’altra e ben più duratura Guerra Fredda che, come ha ricordato più volte uno studioso del calibro di Sergio Romano, nella tensione del ricatto atomico aveva comunque avuto il vantaggio di allontanare nell’abbraccio stritolante del bipolarismo dall’Europa la prospettiva di un conflitto diretto.
Vladimir Putin ha suicidato la strategia russa invadendo l’Ucraina, ha rotto gli schemi di convergenza geoeconomica e ha alzato la marea del caos sull’Europa, che si trova oggi stretta tra l’aggressione russa a Est e la guerra per procura a stelle e strisce a Ovest. Si è già detto di come ora più che mai la via per il Vecchio Continente per tirarsi fuori dalle sacche sia quella di promuovere una grande iniziativa di pace che vada di pari passo con l’acquisizione delle proprie responsabilità. Come del resto pochi, come Papa Francesco, proclamano da tempo.
La via per uscire dalla crisi d’Ucraina è un congresso internazionale modellato su Vienna 1815, ma ricettivo delle lezioni sempreverdi della Conferenza di Berlino del 1878 e della Conferenza di Versailles del 1919, che rifugga dalle chimere delle vittorie totali e delle guerre idealistiche e che sia permeato di realpolitik.
A Vienna, nel 1815, le potenze europee ridisegnarono l’ordine europeo secondo uno schema che avrebbe di fatto retto novantanove anni, salvo pochi scossoni e nonostante l’evoluzione della Prussia in Impero germanico, costruendo un sistema di pesi e contrappesi che concentrava nel Vecchio Continente la risoluzione delle crisi securitarie. Punto di partenza: la non umiliazione della Francia. Mezzi: il concerto e l’interventismo concordato. Fine: la preservazione duratura della stabilità continentale.
A Berlino, nel 1878, Otto von Bismarck convocò la grande conferenza per la spartizione dell’Africa che oggi deve ricordare agli europei quanto la definizione della sicurezza nel Vecchio Continente non possa prescindere dalla definizione di un’agenda il più possibile concertata verso gli spazi esterni all’Ue, alla Nato e all’Occidente. Ieri si trattava di delineare zone d’influenza, oggi di gestire i risvolti mondiali della corsa extra-europea degli imperi di ieri, di guardare al Mediterraneo allargato, all’Africa e al Medio Oriente come spazi d’azione di un’azione europea coesa.
Ed è poi necessario ricordare la lezione di Versailles: aprire una trattativa con intenti punitivi, quale può essere l’imposizione di una vittoria totale su un attore sconfitto ma potente, è il modo migliore per farla deragliare. La diplomazia è l’arte di accontentare tutti, vinti inclusi. L’alternativa alle paci mutualmente condivise sono “armistizi per vent’anni“.
La pace che dovrebbe essere
Russia e Ucraina hanno il dovere di capire i tempi e i modi dell’inizio e della durata delle trattative per terminare il conflitto, nella consapevolezza che la definitiva vittoria dell’una o dell’altra parte è impossibile. Alla presidenza Biden l’onere di spianare loro la strada, rammentando agli ucraini della controproduttività di un tavolo ispirato a Versailles e ai russi del caso dimenticato di Parigi 1973, esempio vivido di pace onorevole concessa da un vinto potente e dotato di nucleare – gli Stati Uniti – ad un pirrico vincitore – il Vietnam del Sud.
Per citare Bergoglio: Mosca deve riconoscere la necessità di porre fine all’aggressione, Kiev quella di una soluzione politica, che, è l’augurio, la cristallizzazione simil-coreana del fronte potrebbe facilitare. Dopo si aprirà lo spazio per un congresso di pace a tutto campo, che per andare a buon fine dovrà avere conduzione europea. Congresso che, come dichiarato dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte in un’intervista ad Avvenire, potrebbe (o dovrebbe?) vedere “l’Ue farsi promotrice di una conferenza internazionale di pace, da svolgersi in sede europea sotto l’egida delle Nazioni Unite, con il pieno coinvolgimento del Vaticano” e potenzialmente espandibile, in un secondo momento, a Stati Uniti, Cina, Regno Unito e altre potenze.
Se così modulato, il grande congresso di pace avrebbe come esito la vittoria del “partito della ragionevolezza” in Occidente e il conseguente annullamento di “volontà cartaginesi” verso la Russia. Con risultato complessivo la possibile nascita di un nuovo ordine europeo sotto il segno della speranza concreta di pace e benessere duraturi. L’Ucraina come capolino dell’autonomia strategica europea e come sua fermata di (ri)partenza.