The Moscow Times è il giornale più diffuso negli alberghi di Mosca. In inglese, dunque indirizzato agli stranieri che alloggiano nel centro della Capitale. Lo ricordiamo sui tavoli del lounge bar, così come accanto ai portieri (siberiani) il cui inglese si riduceva ad un forzato “good morning”, accompagnato da un generoso sorriso.
A The Moscow Times lavorano peraltro molti giornalisti stranieri, specie inglesi ed americani. O, almeno così era fino a poco prima dell’invasione dell’Ucraina. Politica, attualità ma soprattutto cultura affinché l’ospite internazionale fosse ben informato sulla storia e sui traguardi della Russia zarista, sovietica e putiniana.
“Occhio che è la voce del regime” scherzavano i colleghi italiani quando te lo vedevano fra le mani. Vero che nella Federazione essere distanti dalle posizioni ufficiali del Cremlino è tutt’altro che facile, dunque un po’ tutti i grossi network sono più o meno allineati. Un po’ come accade da noi, in Italia ed in generale in Occidente, dove essere critici su invio armi a Kiev o dubitare dell’appoggio all’Ucraina significa essere marchiati con la lettera scarlatta. Anzi, con la “P” di Putin.
I russi hanno iniziato a conoscere la democrazia appena trent’anni fa. Non è una scusante, chiaro, ma da Ivan IV di Russia a Nicola Romanov, da Lenin a Gorbacev per oltre quattro secoli monarchia assoluta e regime totalitario hanno rappresentato l’unica forma di stato.
“Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli, il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato. Se non obbedite al sovrano quando egli commette un’ingiustizia, non solo vi rendete colpevoli di fellonia, ma dannate la vostra anima, perché Dio stesso vi ordina di obbedire ciecamente al vostro principe” scriveva, nel XVI Secolo, il primo zar Ivan IV Il Terribile. Quasi un pronostico di ciò che sarebbe accaduto nel futuro, prossimo e remoto, del paese.
Abbiamo già scritto che Putin ha saputo coniugare storia e tradizioni della Russia zarista con l’identità sovietica, al fine di forgiare una nazione nuova capace di uscire dal periodo buio, caotico e senza prospettive della presidenza Elcin. E lo ha fatto con una formula democratica molto lontana dalle democrazie liberali ma che, ad oggi, sembra funzionare. Diritti a parte…
Dopo la parentesi sanzionatoria apertasi con l’annessione della Crimea, l’Occidente ha stretto la morsa delle sanzioni e aumentato le accuse per violazione delle libertà fondamentali all’ombra del Cremlino, con l’invasione dell’Ucraina.
Una morsa così stretta i cui effetti si sono riflessi anche sul nostro modo di concepire e di capire il conflitto in corso. Forse mossi dall’idea del “fin di bene”, i governi ed i media europei e statunitensi hanno sempre condannato, senza se e senza ma, la politica estera aggressiva dei russi, dalla Crimea alla Siria sino alla guerra ucraina.
Posizioni drastiche, che non ammettono repliche né critiche. Un po’ come in Russia, insomma, con la differenza che la tradizione democratica europea ha modelli più antichi e fondamenta più salde.
L’Italia, fra i principali partner commerciali della Russia (nel 1924 fu il primo paese d’Occidente a riconoscere l’Urss), si è schierata contro Mosca con maggiore acredine rispetto a tutti gli altri membri Ue e dell’Alleanza, dato riscontrato (e rinfacciato) dallo stesso Ministro plenipotenziario agli Esteri Sergej Lavrov.
I network ed i quotidiani nazionali hanno sostenuto le tesi anti-russe del Governo Draghi, imponendo una forma velata di bavaglio a qualunque opinione si discostasse dalle posizioni ufficiali. I giornalisti russi ridicolizzati nei talk show, i colleghi italiani accusati di essere filo-Putin, tentativi di gogna mediatica (ritirare il Premio Ischia a Toni Capuozzo), il ricorso alla risibile accusa di simpatie filo-russe rivolta da una parte della politica alle forze conservatrici.
Risibile perché tutti, dalla sinistra al centro fino alle destre, hanno dialogato con Mosca essendo stata, come già citato, un partner da 7 miliardi di euro di export fino al 2020.
Un orientamento che con il giornalismo vero (ricerca della veridicità della notizia) ha ben poco a che fare, soprattutto quando si negano o si dimenticano eventi che potrebbero essere chiave di volta per fornire un’informazione più corretta. Ad esempio, il rifiuto di riconoscere le operazioni militari condotte da Kiev contro le repubbliche separatiste del Donbass per otto anni, costate diecimila morti ad entrambi gli schieramenti, oltre tremila vittime civili ed un milione e mezzo di sfollati. O, ancora, accettare che una parte della difesa ucraina sia in mano ad elementi neo-nazisti, nazionalisti ed avventurieri arruolati nelle curve e nei partiti più sciovinisti della politica ucraina. Una riproposizione, in chiave contemporanea, delle famigerate Tigri di Arkan ex ultrà del Belgrado e criminali di guerra.
L’Italia è forse il Paese Ue più fertile per il giornalismo di parte. Esiste una linea principale e quella va seguita. Poi sì, si possono seguire anche altre strade ma il percorso diventa poi molto difficile. Studiare serve solo se la cultura è “veicolabile” al fine di sostenere tesi preparate a tavolino. Abbiamo sentito parlare di crimini contro l’umanità sin dalle prime settimane di guerra, ma nessuno ha mai dato voce a quella fetta di popolazione del Donbass che per anni ha subito il nazionalismo delle forze ucraine. Abbiamo accettato, come oro colato, qualunque dichiarazione provenisse da Kiev senza controbilanciarla con le poche (ma se si vuole reperibili) affermazioni del Cremlino, convinti che quella russa fosse solo propaganda. E dunque non degna di nota.
Ora, Putin non ha scusanti per la censura dei media se non, forse, quella della “poca pratica” democratica dovuta ai fattori, storici, sopra elencati. Per l’Italia scuse zero: un giornalismo davvero libero dovrebbe fare dell’obiettività il suo cavallo di battaglia, non cavalcare trend per aumentare la platea dei lettori e per non essere marchiata quale “putinista”. In pochi sembrano rendersene conto ma in questa fase storica, più che mai i giornali rischiano di perdere ancora di più credibilità di fronte al pubblico. Pubblico che pare assente ed assorto dai social, ma in realtà attento a ciò che accade ed a porsi domande… quelle stesse domande che dovrebbe farsi un giornalista quando qualcosa non gli sembra tornare.