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Le ultime scelte di Washington sembrano suggerire che una parte crescente dell’amministrazione Biden sia intenzionata a ridefinire i termini della guerra in Ucraina. Da tempo, infatti, dagli Stati Uniti arrivano segnali su quello che può apparire come un graduale ridimensionamento dell’interesse Usa nel mantenere alto il livello del conflitto.

L’ultimo episodio è rappresentato dalle parole del capo di Stato maggiore Mark Milley, che dopo avere negli scorsi giorni parlato dell’opportunità di aprire un tavolo negoziale tra Kiev e Mosca, in conferenza stampa ha frenato le ambizioni di Volodymyr Zelensky sulla riconquista nel breve termine della Crimea e dei territori occupati dai russi dall’inizio della guerra. Il generale statunitense ha detto che la possibilità di riconquista immediata è molto ridotta e, pur rimarcando il sostegno a Kiev e il fatto che la Russia abbia fallito, ha sottolineato che in inverno potrebbe aprirsi una fase negoziale.

Queste parole – che non vanno interpretate come una concessione ai russi ma forse un modo per ristabilire le priorità belliche Usa e ucraine – devono essere unite con altre mosse accadute nelle ultime settimane. Mosse che sembrano andare nella direzione di una svolta diplomatica rispetto alle relazioni con Vladimir Putin. Nelle ore precedenti è stata fondamentale la scelta di escludere da subito che le esplosioni in Polonia fossero state causate da missili russi: versione che a molti osservatori è sembrata quantomeno velocizzata, se non addirittura forzata, per evitare escalation tra Nato e Russia in questa fase del conflitto. Una versione “politica” che, tra l’altro, è stata pubblicamente smentita proprio dal maggiore interessato agli aiuti militari occidentali: il governo ucraino.

Il cambio di prospettiva

Molti si potrebbero domandare il motivo di quello che appare effettivamente un cambio di rotta rispetto al più recente passato. Cosa è accaduto a Washington al punto da fare parlare il Cremlino di reazione “misurata” e “professionale” sull’incidente polacco e di sottolineare che gli Stati Uniti sono “in grado di esercitare un’influenza su Kiev, rendendola più flessibile”? Come si può passare dal momento più inquietante, cioè il parlare di armi nucleari, di bombe sporche, osservare l’attacco al gasdotto Nord Stream, alla scelta di Russia e Stati Uniti di far vedere che esistono canali di dialogo al punto da fare incontrare i capi di Cia e servizi russi in Turchia?

La risposta probabilmente è data da diversi fattori. Dal punto di vista interno, Joe Biden ha superato le elezioni di metà mandato senza subire quel colpo durissimo paventato da molti. Questo lo ha reso più saldo di fronte alla comunità internazionale, ma ha anche palesato il desiderio di molti elettori di non rimanere inghiottiti in una guerra che a molto può ricordare quelle “guerre infinite” su cui Donald Trump ha in parte vinto le elezioni. I repubblicani hanno già chiarito che il sostegno a Kiev va ridimensionato o definito nei dettagli.

Cambia l’inerzia della guerra

Dal punto di vista tattico, cioè della situazione sul campo in Ucraina, la Russia in questo momento appare ridimensionata nei suoi obiettivi, essendosi ritirata da Kherson e avendo dimostrato di non avere capacità e probabilmente intenzione di impegnarsi in nuove offensive via terra prima dell’inverno. Tutto questo ha confermato le capacità statunitense e britannica di bloccare le forze russe con armi e intelligence in un teatro operativo che, teoricamente, servizi e militari di Mosca avrebbero dovuto conoscere in maniera più dettagliata. Il Cremlino continua a martellare le infrastrutture civili destando sconcerto e condanna da parte di tutti, ma sa di non potersi permettere nuove sortite in territorio ucraino dopo il disastro di Kharkiv e lo smacco di Kherson.

In definitiva, la Russia appare in questa fase della guerra in una posizione di svantaggio: ed è per questo che secondo Washington è il momento, in attesa del possibile rallentamento delle operazioni in inverno, di tentare di aprire una finestra negoziale tra le due parti in conflitto. Anche perché le ultime dichiarazioni sia da parte russa che americana sul non utilizzo di bombe nucleari tattiche né delle famigerate bombe sporche rappresenta un passaggio fondamentale. Questo non implica un disimpegno, ma sono avvertimenti che non vanno sottovalutati dal momento che il Pentagono non avrebbe alcun motivo, ora, per tendere la mano a un nemico indebolito. Mentre lo fa anche nella speranza che i russi evitino di ricompattare il fronte e riorganizzarsi guadagnando tempo: quello che Putin e il generale Surovikin hanno sempre avuto come obiettivo prioritario.

Come Biden “ha vinto” la guerra

A questi profili tattici, si aggiungono poi questioni di natura strategica. Biden, di fatto, sta vincendo la “sua” guerra. Gli Stati Uniti, da quando Putin ha iniziato a muovere le sue truppe ai confini dell’Ucraina prima dell’invasione, hanno gradualmente riassunto la piena leadership del blocco occidentale dettando a tutta la Nato l’agenda democratica. Quando le esercitazioni russe facevano presagire un conflitto, erano l’intelligence Usa e quella britannica a sostenere che l’invasione fosse imminente, mostrando di essere perfettamente consapevoli di quanto stesse accadendo al Cremlino, di prevedere e poi contenere l’invasione.

Questo ha poi permesso, nel corso della guerra, di blindare politicamente l’Alleanza Atlantica in una fase cruciale della sua vita. Pochi mesi prima, a causa del ritiro disastroso e unilaterale dall’Afghanistan e di numerosi dubbi europei sul modus operandi, si iniziava a porre in dubbio il sistema di coordinamento Nato. Oggi, invece, è proprio questa alleanza militare a rappresentare l’architrave delle relazioni euro-atlantiche, e nessuno sembra porre in dubbio questo concetto al punto che si è anche silenziata la questione della difesa europea e della autonomia strategica dell’Unione. La richiesta di Finlandia e Svezia di far parte del blocco militare euro-atlantico (con Helsinki che addirittura infranto la sua proverbiale politica neutrale) è di fatto la certificazione più chiara di un ampliamento della capacità Usa di incidere sulla strategia del Vecchio Continente.

Va aggiunto poi un ulteriore tassello raggiunto da Washington dall’inizio dell’invasione russa: la brusca accelerazione della diversificazione delle fonti energetiche dell’Europa rispetto alla dipendenza dalla forniture di Mosca. Le sanzioni hanno indebolito Putin e il suo sistema economico (colpendo inevitabilmente anche quello europeo), ma quello che risulta ancora più importante è avere infranto uno schema di relazioni tra Europa centrale e Russia che appariva granitico. I contratti per il gas e la realizzazione del Nord Stream 2 erano considerati le pietre militari di quest’asse europeo di Mosca e dei solidi rapporti costruiti con tutto il continente. Biden ha ottenuto non solo lo stop a tutto questo, ma anche la decisione degli Stati Ue di colmare il vuoto lasciato dai giacimenti russi con fornitori americani o partner proprio dell’Occidente.

Dove va lo sguardo di Washington

Se queste sono le vittorie ottenute (al momento) dagli Stati Uniti, il Pentagono e la Casa Bianca guardano anche oltre. La guerra in Ucraina, infatti, deve nella loro mente, continuare a impegnare la Russia. Ma per gli strateghi Usa questo conflitto non può distrarre ulteriormente Washington dal vero problema sistemico rappresentato dalla Cina. I documenti strategici Usa, le dichiarazioni di Biden e del segretario alla Difesa Lloyd Austin, le scelte politiche e strategiche in tutto l’Indo-Pacifico e la pressione sulla Nato per cooperare anche in questo settore del mondo, non sono elementi sporadici. La Cina, come è stato scritto nero su bianco nella nuova strategia degli Stati Uniti, è “la sfida più seria”. La guerra in Ucraina ha fermato i piani russi. Ma per Washington ora è essenziale svincolarsi, non per forza rapidamente e in modo brusco, per dedicarsi a un confronto di portata mondiale in cui la Russia può essere un elemento decisivo.

Tutto questo dipenderà da una serie di fattori che devono essere tenuti in considerazione. In primis la capacità dell’amministrazione democratica di tenere la barra dritta in un Paese che appare profondamente diviso sulla sua necessità di sostenere l’Ucraina ma soprattutto sul modo di comportarsi nei confronti di Mosca. Rispetto a un’ala “isolazionista” che è caratteristica dell’America profonda, esiste, soprattutto nel cosiddetto Deep State, un segmento che non apprezza affatto una linea di distensione verso Putin. E sono tanti, in quest’area, a credere che la debolezza del Cremlino sia una finestra di opportunità per colpire definitivamente il vecchio nemico della Guerra Fredda. Lo stesso Milley ha detto che al momento non è possibile pensare a una riconquista della Crimea e dei territori occupati, ma le sue parole non implicano affatto che gli Stati Uniti si disimpegnino né che le condizioni non possano cambiare. Il generale in questo è stato molto preciso.

L’Ucraina, inoltre, non sembra convinta di accettare un’intesa al ribasso con la Russia che la vedrebbe privata di territori occupati e che ritiene di sua stretta sovranità. La controffensiva è apparsa vincente, e dal governo ucraino non arrivano segnali che promettono un’intesa, considerato che per loro non vi è margine di trattativa fino alla completa liberazione di quei territori. L’esecutivo di Kiev non dimostra, al momento, alcuna volontà di trattare con il Cremlino.

In tutto questo, resta il punto interrogativo principale, ovvero le mosse russe. I bombardamenti sulle città ucraine non sembrano certo alludere a una desiderio di accordo, e molto spesso il partito dei falchi interno alla Federazione ha saputo prendere il sopravvento su quello delle (poche ma esistenti) “colombe”. Falchi che secondo molti analisti hanno anche inciso sulle scelte di Putin. L’invasione di febbraio, del resto, è la prova più netta di come sia ben radicato in Russia il desiderio di risolvere in modo definitivo quello che Mosca considera un “problema”, ovvero lo scivolamento dell’Ucraina verso Occidente e l’assenza di una sfera di protezione in Europa orientale. È chiaro che un’intesa accettata da Kiev ma soprattutto perorata da Washington non può essere in alcun modo foriera di una sfera di influenza di Mosca sul Paese. Quindi gli interessi delle parti appaiono ancora troppo distanti.

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