Tutto ebbe inizio con un lanciamissili. Il Raytheon Mim-23 Hawk, sistema di difesa aerea di produzione statunitense venduto dagli Usa a Israele nell’agosto del 1962. La decisione della Casa Bianca di armare Tel Aviv rappresentò un passaggio epocale nella politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente. La scelta “sionista” di John Fitzgerald Kennedy venne confermata dal suo successore Lyndon B. Johnson nel 1965, il primo presidente a fornire armi offensive a Israele con la cessione dei carri armati M48 Patton, trasferiti attraverso la Germania Ovest.
In breve tempo, la postura americana sarebbe mutata di nuovo: la Guerra dei sei giorni e la pericolosa influenza sovietica nei Paesi arabi aveva contribuito ad accrescere i timori del dipartimento di Stato nella regione. Israele, dunque, non solo andava armato, ma sarebbe dovuto diventare per Washington il principale bastione antisovietico in Medio Oriente e di conseguenza un’altra pedina degli Stati Uniti nella Guerra fredda contro l’Urss.
Oggi lo Stato d’Israele deve la sua sopravvivenza soprattutto ai generosi aiuti bellici che annualmente il Congresso Usa stanzia in forza di un memorandum (in vigore dal 1983 e rinnovato nel 2016 con durata decennale) e dei fondi ad hoc per la legge sulla spesa militare. Si tratta in totale di oltre 40 miliardi di dollari relative alle forniture militari. Un processo consolidato che tuttavia senza gli eventi storici di cui sopra (le guerre e la lotta al comunismo sovietico) non si sarebbe mai sviluppato.
La storia si ripete: il caso dell’Ucraina
La crisi del 2014 in Ucraina ha risvegliato l’asfittico interventismo americano in un’area del globo ritenuta priva di qualsivoglia interesse strategico e condannata a contrastare un incontenibile declino demografico previsto lungo tutto il Ventunesimo secolo: l’Europa. Il sostegno americano a Kiev, assediata prima dalla guerra ibrida e poi dalla guerra guerreggiata ordinata da Putin nel 2022, è arrivato con colpevole ritardo. L’appoggio alla cosiddetta rivoluzione della Dignità ha sì permesso al regime europeista di emergere dopo i fatti di Euromaidan e la fuga di Viktor Yanukovich, ma la reazione dell’amministrazione Obama al colpo di mano in Crimea e alla proxy war russa in Donbass si è rivelata debole e quasi accondiscendente.


L’ex presidente democratico pensava che all’Ucraina fosse sufficiente concedere un tipo di assistenza rigorosamente non letale. Di seguito l’elenco di forniture garantite dagli Stati Uniti all’esercito ucraino tra il 2014 e il 2015:
- giubbotti antiproiettile;
- elmetti;
- veicoli;
- dispositivi per la visione notturna e termica;
- bobcat e bulldozer;
- radio;
- motovedette;
- razioni;
- tende;
- radar controfuoco;
- uniformi invernali;
- kit medici.
Soltanto nel 2015, grazie al Joint Multinational Training Group-Ukraine, gli Usa si sarebbero uniti ai loro alleati occidentali, in particolare il Regno Unito, nelle operazioni di addestramento dei soldati ucraini. Il training Nato è andato avanti per sette anni, prima di subire un temporaneo stop dovuto all’invasione ucraina, ed è ricominciato la scorsa estate. L’impasse sulle armi offensive si è sbloccata con l’avvicendamento di Donald Trump nello Studio Ovale. Trump, in polemica con la tiepida azione di Obama, tra i suoi primi atti annunciò che avrebbe alzato il tiro con la consegna di materiale bellico letale all’Ucraina.
Nel 2017 il Congresso ha approvato l’invio dei missili anticarro Fgm-148 Javelin, per il valore di 47 milioni di dollari. La guerra su vasta scala, lanciata il 24 febbraio 2022, è stata lo spartiacque. Prima di quel giorno gli Usa avevano mandato appena 2 miliardi e mezzo di dollari all’Ucraina. Dopo il 37esimo pacchetto autorizzato a maggio dal Pentagono, quella cifra è salita a 36 miliardi, diciotto volte superiore.
La scommessa di Biden e degli alleati
La piega presa dal conflitto sta convincendo Washington dell’urgenza di continuare ad armare Kiev, anche a oltranza. I funzionari dell’amministrazione Biden hanno ammesso l’ipotesi di una cristallizzazione della guerra. “Se la candidatura dell’Ucraina all’adesione alla Nato dovesse bloccarsi, tali garanzie potrebbero andare da un accordo di mutua difesa in stile articolo 5 della Nato ad accordi sulle armi in stile Israele con l’Ucraina come deterrente contro la Russia”, si legge in un articolo di Politico di qualche giorno fa che cita fonti governative.
In un’intervista al Wall Street Journal il presidente polacco Andrzej Duda ha rivelato l’esistenza di questo piano, che si fonderebbe per il momento su una maggiore intesa legata al trasferimento di armamenti e tecnologie militari occidentali. “Le discussioni sono in corso proprio ora”, ha dichiarato al quotidiano statunitense il capo di Stato della Polonia, che ha confermato di aver sottoposto l’idea a Biden. Non potendo però ancora consentire all’Ucraina di aderire alla Nato, gli alleati avrebbero pensato a delle garanzie di sicurezza più consistenti di quelle stabilite nel 1994 con il memorandum di Budapest, violato dalla Russia. Memorandum che obbligò inoltre la neonata Ucraina a rinunciare alle oltre mille testate nucleari dell’Unione Sovietica. Oggi Kiev potrebbe agilmente convertire il suo programma nucleare da civile a militare, come raccomanda Michael Rubin del think tank American Enterprise Institute per il dopoguerra, ma i trattati internazionali firmati lo vieterebbero categoricamente. Ad ogni modo l’obiettivo, in prospettiva, è quello di costruire una deterrenza più credibile e vincolante per gli Stati Uniti, il vero attore al vertice del sistema internazionale e l’unico interlocutore nucleare ritenuto alla pari da Mosca.
“La Russia deve capire oggi che l’Ucraina ha ottenuto queste garanzie di sicurezza e che queste non decadranno con il tempo o con la stanchezza dell’Occidente”, ha continuato Duda. Il modello israeliano per Kiev sarebbe stato concepito la prima volta nell’autunno del 2022 da Andriy Yermak, attuale capo di gabinetto di Volodymyr Zelensky, e da Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato dal 2009 al 2014.

L’esercito di Zelensky tenterà nei prossimi mesi di liberare tutti i territori nel solco della controffensiva estiva. Il rischio di uno stallo è reale, ma dotare l’Ucraina dei sistemi necessari per respingere futuri assalti russi è la promessa che gli alleati euroatlantici, guidati dagli Usa, dovranno onorare se vorranno peraltro uscire illesi dagli ineludibili test elettorali (in Europa si voterà tra il 6 e il 9 giugno 2024, in America il 5 novembre 2024). Il costo politico di una sconfitta non è tollerabile e supera quello dell’eventualità di un conflitto congelato. Ecco perché a Washington e a Bruxelles stanno studiando uno scenario israeliano.
Rispetto all’apertura delle ostilità, l’Ucraina ha fatto un salto di qualità che in Occidente è stato notato e apprezzato. Kiev si è guadagnata la fiducia della Nato migliorando la sua reputazione internazionale, a tal punto da meritarsi i carri armati, i missili, gli scudi aerei e ora perfino i caccia più avanzati, dimostrando un apprendimento precoce (4 mesi invece di 6 per imparare a pilotare gli F-16 secondo Yahoo News). E chissà se proprio da Tel Aviv, in futuro, cadrà il veto sull’Iron Dome, richiesto sia da Zelensky sia dagli americani, che al progetto “Cupola di ferro” hanno contribuito investendo alcuni miliardi e al momento hanno una batteria operativa.
Così quell’ex repubblica sovietica che nel 2014 abbandonava disillusa e senza colpo ferire le postazioni in Crimea si accinge a trasformarsi in una fortezza impenetrabile e militarizzata in ogni suo angolo, sotto la costante minaccia dei suoi ingombranti vicini, come Israele con l’Iran. Gli Stati Uniti si stanno preparando al dopoguerra immaginando un grande laboratorio bellico nel cuore dell’Europa chiamato Ucraina. Le prestazioni dei Patriot, degli Himars, dei tank Abrams e di tutti gli altri sistemi d’arma statunitensi che stanno sfidando l’arsenale di Putin rappresentano, per il Pentagono e i suoi contractor, la più grande opportunità di raccogliere dati e statistiche sul campo contro l’avversario di un secolo.

(Foto: Us Army)

(Foto: Epa/Jim Hollander)
La prospettiva di un conflitto congelato
Per quanto riguarda gli ucraini, la consapevolezza della guerra è cambiata. In palio non c’è più l’esistenza dello Stato, che ha resistito agli attacchi maggiori nell’inverno del 2022. Oggi l’Ucraina deve fronteggiare la pressione di una superpotenza nucleare pronta a mobilitare centinaia di migliaia di uomini da spedire al fronte per soddisfare il desiderio imperiale del suo leader, il quale, nonostante lo stillicidio di sconfitte, punta pervicacemente a detronizzare e decapitare il governo da lui definito “nazista”.
Davanti a queste condizioni la pace è evidentemente un miraggio. Inoltre tra i due popoli, quello ucraino e quello russo, si è creata un’incomunicabilità che ricorda vagamente la difficile convivenza tra ebrei e palestinesi. Con il rischio, anche in questo caso, di scivolare in una preoccupante spirale di violenza tra civili. Quindi un’attività nei fatti terroristica che potrebbe soppiantare i sanguinosi combattimenti tra le forze armate, magari in virtù di un armistizio firmato a denti stretti dai belligeranti.
Fuori o dentro alla Nato, Kiev sarà comunque il principale avamposto globale anti-russo. Facendo leva su un supporto virtualmente illimitato proveniente dal vicino Ovest e cosciente dei propri mezzi, l’Ucraina dovrà infine reinventare un’identità nazionale e un sistema politico che hanno mostrato tutta la loro turbolenza e fragilità dal 1991, anno dell’indipendenza. Il modello israeliano proposto dagli Stati Uniti potrebbe così favorire il progresso non solo tecnologico e militare ma democratico dell’Ucraina. Sperando però che un giorno la pagina di storia dedicata alla guerra con la Russia possa avere oltre a un incipit anche una parola finale.