Se il “rocket man” di Pyongyang avesse commesso l’errore fatale di colpire un obiettivo americano nel Pacifico, Donald Trump avrebbe considerato l’ipotesi di lanciare missili nucleari sulla Corea del Nord. È questa le rivelazione del giornalista Bob Woodward, che nel suo ultimo libro racconta come il tycoon sarebbe stato pronto ad annientare il più scomodo e caparbio avversario dello Zio Sam.

Quando nel 2017 il dittatore Kim Jong-Un continuava a portare avanti imperterrito il suo programma missilistico, effettuando test balistici che terrorizzavano l’intera regione del Pacifico, e non meno l’Occidente – un missile Icbm Hwasong-14 avrebbe potuto raggiungere sia il continente europeo che l’America continentale -, sulle scrivanie del Pentagono c’erano già due piani per “risolvere” il problema: il noto piano di decapitazione, e quello ben più pericoloso dello strike nucleare che avrebbe previsto fino a 80 bombe nucleari tattiche da sganciare sugli obiettivi strategici a nord del 38esimo parallelo. Secondo le stesse affermazioni dell’ex segretario della Difesa Jim Mattis – dimessosi nel 2019 per divergenze politico-strategiche con il presidente Trump – “i piani per quella guerra erano sulla scrivania alla fine del 2017”, quando il presidente degli Stati Uniti si prendeva gioco sui giornali del Maresciallo Kim e minacciava di scatenare “fire and fury” su una Corea del Nord che si mostrava pronta a tutto. Anche a trascinare il mondo in una guerra nucleare.

I resoconti “confusi” del libro di Woodward hanno scatenato non poche polemiche in Corea del Sud, fedele alleato degli Stati Uniti, che nell’indesiderabile scenario di uno strike nucleare lanciato sul Nord, sarebbe stato colpito senza dubbio dal fallout nucleare con conseguenze inimmaginabili e senza dubbio letali. L’opzione presa in esame dal Pentagono “suggerisce uno sconsiderato disprezzo per le vittime civili, gli impatti regionali e le considerazioni internazionali”, commenta in editoriale pubblicato su The National Interest Doug Bandow, esperto della questione nordcoreana e assistente speciale di Reagan. Ricordando come le minacce di Washington siano in verità il primo e l’unico propellente del programma nucleare di Pyongyang: che cerca disperatamente una deterrenza per potersi sedere con un punto di forza al tavolo dei negoziati, ed uscire nel miglior modo possibile da un lungo impasse che nonostante i tenui traguardi raggiunti sul piano diplomatico, continua a vivere in uno stato di isolamento totale che pesa su una popolazione spesso ridotta alla fame.

Il generale Mattis avrebbe inoltre osservato come i piani del Pentagono che consideravano l’impiego di armi nucleari sarebbero stati “eccessivi”, facendo notare come un’azione simile avrebbe “incenerito un paio di milioni” di esseri umani che, seppur soggetti ad quello che viene considerato un “dominio dispotico”, non avrebbero certamente meritato d’essere polverizzati. Tutti del resto conoscono la potenza distruttiva di un singolo ordigno nucleare, e hanno ben impresse le immagini di Hiroshima. E questo senza considerare le conseguenze di una ricaduta radioattiva che si sarebbe diffusa, più che probabilmente, su Cina e Russia. Due potenze, entrambe nucleari, che senza dubbio non sarebbero rimaste a guardare.

Se il tentativo di distruggere l’intero arsenale di rappresaglia di Pyongyang con degli strike ben mirati fosse fallito – si immagina che la campagna nordcoreana e le catene montuose a nord, luoghi desolati per chi li ha veduti, siano pieni di bunker sotterranei che potrebbero nascondere silos e rampe di lancio -, sarebbe stato immediata la risposta sul primo obiettivo a portata: Seoul. Bombardata dall’artiglieria schierata al confine, che sarebbe seguita, sempre stando alle ricostruzioni degli scenari ipotetici, da un’invasione su vasta scala condotta da tutti i carri armati e i mezzi corazzati disponibili. Azione che avrebbe esposto a rischio, o addirittura costretto anche le forze di terra americane ad entrare in azione a fianco dell’alleato sudcoreano.

Una nuova guerra convenzionale non supportata da prove consistenti di una minaccia imminente, secondo gli esperti, avrebbe inoltre completamente destabilizzato la leadership degli Stati Uniti; che da difensori sarebbero stati visti da molti attori della comunità nazionale come degli “aggressori”. Minando seriamente la reputazione internazionale dell’America, che resta comunque nella storia l’unica potenza ad aver impiegato contro un avversario reale delle armi di distruzione di massa nucleari.

Secondo quanto riportato da Bandow già all’inizio degli anni ’90 l’amministrazione Clinton aveva studiato e pianificato una guerra preventiva contro la Dpkr di Kim Jong-il. “L’allora Segretario alla Difesa William Perry e l’Assistente Segretario alla Difesa Ashton Carter ricordarono in seguito di aver “preparato i piani per colpire gli impianti nucleari della Corea del Nord e per mobilitare centinaia di migliaia di truppe americane per la guerra che probabilmente sarebbe seguita”. Fu il presidente sudcoreano Kim Young-sam ha scongiurare questo rischio, convincendo il presidente Clinton a desistere e mantenere il delicato status quo che, nonostante numerose escalation, scontri e rappresaglie, si è mantenuto stabile dalla fine del conflitto accesosi nelle prime battute della Guerra Fredda – la guerra di Corea, per i nordcoreani “guerra di liberazione” – che ha diviso la penisola dell’Asia orientale in due stati sottoposti a due influenze inconciliabili: comunismo e imperialismo. Già allora era chiaro, anche ai più imperturbabili falchi di guerra del Congresso, che le perdite sarebbero state immense; e il risultato, in percentuali non espresse, forse non quello desiderato.

Oggi come allora l’amministrazione di Seoul non si è dimostrata entusiasta di essere a meno di 50 chilometri dai primi obiettivi dei quali i bombardieri strategici americani avrebbero inserito le coordinate per sganciare bombe intelligenti, o peggio, nucleari. Soprattutto in assenza di consenso. “Quello che possiamo dire chiaramente è che l’uso di un’arma nucleare non è [incluso] nel nostro piano e l’uso della forza militare è impossibile senza il consenso della Corea del Sud”. Ha affermato il presidente sudcoreano Moon Jae-in, che ha proseguito le sue considerazioni in merito ai “piani non più segreti” di Washington, chiosando sulle regole alla base di un’alleanza: ossia discutere, sempre e comunque, ogni piano che preveda l’impiego di un’arma che potrebbe annientare insieme al “nemico”, anche l’amico che vi confina.