Nel bel mezzo della crisi sudanese si affaccia l’incubo del bioterrorismo. L’Organizzazione mondiale della Sanità, attraverso il suo rappresentante locale Nima Saeed Abid, ha infatti dichiarato che un non precisato gruppo di miliziani – non è noto a quelle delle due fazioni in campo appartenga – avrebbe occupato un edificio di Khartoum ove sarebbero conservati agenti patogeni potenzialmente letali come morbillo, poliomielite e colera. Dopo aver fatto irruzione nel laboratorio, i miliziani avrebbero mandato via con la forza il personale tecnico a lavoro prima di asserragliarvisi all’interno.

Cosa contiene il laboratorio assaltato

Abid sostiene che l’occupazione del Laboratorio centrale di sanità pubblica è un pessimo segno da parte di una delle parti in lotta poichè l’occupazione di un simile centro non avrebbe altra funzione che quella di utilizzare virus e batteri come arma. La cacciata dei tecnici, unitamente all’interruzione di corrente in tutta la capitale sudanese, rende impossibile gestire correttamente i materiali biologici conservati: la mancanza di corrente elettrica, infatti, rischia di deteriorare progressivamente le sacche di sangue qui stoccate. Il laboratorio è situato nel centro di Khartoum, non lontano dall’aeroporto principale, proprio in prossimità dei punti critici di attrito tra l’esercito sudanese e le Forze di supporto rapido. Non lontano da qui, infatti, sorge il quartier generale dell’esercito sudanese.

La struttura, va precisato, sebbene desti alta preoccupazione è un comune laboratorio pubblico e non un sito ad alto contenimento. Inoltre, tutte le patologie che il laboratorio tratta sono endemiche nella regione e dunque non classificate ad alto rischio. Del resto, la particolare geografia della città rende i siti strategici presi di mira pericolosamente prossimi alle infrastrutture critiche come ospedali e strutture sanitarie. Secondo gli esperti, tra cui l’italiano Fabrizio Pregliasco, quelli conservati sono agenti patogeni che si trasmettono attraverso varie vie, e dunque non basterebbe disperderli nell’ambiente bensì sapere dettagliatamente come trattarli.

I patogeni, inoltre, hanno bisogno di essere trasportati e diffusi non solo per via aerea (si pensi all’antrace) ma anche attraverso la contaminazione di acqua e cibo. Oppure attraverso il caricamento di bombe e proiettili. Silenziose e invisibili, hanno il micidiale vantaggio di poter colpire – con costi relativamente bassi – aree molto estese con la massima efficaci. Nel caso del Sudan, a questo rischio intenzionale si aggiunge il fatto che la cattiva gestione dei materiali conservati, in un Paese in guerra ove solo il 16% delle strutture sanitarie sta rimanendo in piedi, può provocare seri rischi per chiunque venga in contatto con questi materiali. Per questa ragione l’Oms sta chiedendo a gran voce che il laboratorio venga liberato e posto sotto precisi accordi fra le parti.

Bioterrorismo, una minaccia sempre attuale

Il bioterrorismo viene agitato come possibile effetto deterrente dalla notte dei tempi sino a tutti i conflitti contemporanei. Uno dei più preoccupanti sviluppi dell’ingegneria genetica moderna, è infatti, il potenziale utilizzo delle tecniche di ricombinazione per la produzione massiva di tossine per scopi militari. Il cosiddetto bio-warfare è un fantasma con cui le società contemporanee si sono dovute confrontare da tempo ma anche uno strumento al quale si è rinunciato almeno ufficialmente, scongiurando una corsa ai bio-armamenti a differenza di quella alle armi atomiche. Esistono anche precisi strumenti del diritto internazionale che si sono occupati della prevenzione dello sviluppo di queste armi: prima fra tutte la Convenzione di Ginevra del 1925 che impedisce, in caso di conflitti, l’utilizzo di “metodi di guerra batteriologica” nonché la “Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, la produzione, e lo stoccaggio di armi batteriologiche e tossine e sulla loro distruzione” (BTWC) in vigore dal 26 marzo 1975, con 183 stati parte ma che vede numerose nazioni mancanti all’appello. Questi strumenti, tuttavia, sono delle armi spuntate, poichè non proibiscono la produzione di agenti patogeni ma esclusivamente il loro utilizzo a scopi militari.

Un precedente inquietante in Sudafrica

Nel continente africano l’allarme non è una novità. Il Sudafrica durante l’apartheid è stato un triste caso da manuale a questo proposito. Era l’ottobre del 1998 quando un rapporto della commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione rese pubblico il Project Coast, un programma di biowarfare condotto segretamente dal regime tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.

Avviato nel 1981 come “ipotesi difensiva” si era ben presto trasformato in un progetto letale al fine di produrre due tipi di patogeni: armi di distruzione di massa, attraverso l’uso di antrace, tetano e colera nonchè agenti di intossicazione comune come la salmonella; un secondo programma, parallelo al primo, fu sviluppato per colpire singoli individui attraverso agenti letali di origine chimica, biologica e vegetale. Il programma, segreto fino al 1998, era apparentemente motivato dalla necessità di sviluppare agenti per il controllo delle folle nonché attrezzature difensive sempre più sofisticate. Una volta sfuggito di mano, si trasformò in una fitta rete di segreti, società di copertura, transazioni illecite e strutture para-statali apparentemente invisibili.

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