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Morti, rapimenti, persecuzioni e cambi di popolazione su base etnica. In una sola parola: Afrin. I dati contenuti nell’ultimo report stilato dal Rojava Information Center delinea un quadro allarmante e prevede un futuro ancora peggiore non solo per la città del nord-ovest della Siria sotto occupazione delle milizie filo-turche dal marzo 2018, ma anche per Serekaniye e Tel Abyad. Le tanto famose safe zone imposte dalla Turchia in territorio curdo, quindi, non sarebbero poi così tanto sicure come la propaganda del Sultano vorrebbe far credere. E i numeri lo dimostrano.

Secondo quanto emerge dal report del Ric, la Turchia ha preso il controllo di Afrin e dintorni grazie all’aiuto di milizie di stampo jihadista a lei fedeli, primi tra tutti Al Nusra, costringendo almeno 300mila persone a lasciare le loro abitazioni per cercare rifugio in altre zone della Siria o all’estero. Stiamo parlando della metà della popolazione che la città contava prima dell’invasione e che è stata debitamente sostituita da rifugiati arabi provenienti principalmente dalla regione del Ghouta. Al Nusra però non è l’unica forza jihadista responsabile delle atrocità commesse giornalmente ad Afrin: tra le milizie presenti nella città figurano anche la Sultan Murad Brigade così come Jaysh-al-Islam. I crimini da loro commessi, si legge nel report, vanno dal saccheggio, ai rapimenti, all’allontanamento forzato degli abitanti, fino agli omicidi e alle aggressioni sessuali contro le donne.

Crimini e sostituzione demografica

Dall’inizio dell’occupazione, sono 55 i casi di stupro depositati presso gli organismi internazionali e diverse fonti raccolte dal Ric parlano di un commercio di donne costrette a sposarsi. Nel periodo che vada luglio a ottobre 2019 invece ci sono stati 313 rapimenti, 11 persone sono rimaste ferite e altre 11 hanno perso la vita a seguito dei 110 incidenti verificatesi nella città e di cui gli analisti del Ric sono riusciti ad avere notizia. Come da loro stessi specificato, i dati in loro possesso non solo del tutto completi, per cui si teme che il numero delle vittime e dei soprusi perpetrati contro la popolazione locale a maggioranza curda siano più numerosi. Quello che invece è certo è il nome delle milizie che si sono macchiate di questi crimini: Ahrar al-Sharqya, Sultan Murad, Faylaq al-Sham, Samarkand Brigade, Saed Bin Weqas e Al Hamzat.

Gli attacchi contro la popolazione locale però passano anche per la cancellazione della cultura e l’annientamento di quella pluralità etnica che aveva da sempre contraddistinto Afrin. Dall’inizio dell’occupazione, infatti, nelle scuole è stato abolito lo studio del curdo, sostituito dal turco; i nomi delle strade e piazze sono stati cambiati, fino ad arrivare all’inaugurazione di Erdogan square; la celebrazione del capodanno curdo è stata proibita.

I curdi però non sono gli unici in pericolo a causa della presenza di milizie jihadiste. Anche gli yazidi e i cristiani sono vittime dei gruppi filo-turchi che governano Afrin, una città in cui tutte le religioni e le etnie avevano trovato asilo nel corso degli anni. Come detto, la metà della popolazione è stata costretta ad abbandonare la propria casa e tutti coloro che in seguito hanno cercato di far ritorno sono stati bloccati. Ultimo, emblematico atto di occupazione e controllo messo in piedi (letteralmente) dalla Turchia e dai suoi alleati sul territorio è stata la costruzione del muro intorno alla città. L’obiettivo è duplice: da una parte l’isolamento di Afrin dal resto della Siria, dall’altra il controllo della popolazione in entrata e in uscita. Così facendo, le milizie hanno potuto portare avanti indisturbate una vera e propria sostituzione demografica su base etnica. I dati mostrano infatti un drastico cambiamento nella popolazione rispetto al periodo pre-guerra: se nel 2011 il 92 per cento della popolazione era curda, adesso il 75 per cento è formata da turkmeni e arabi provenienti dalla Turchia, da Homs, dal Ghouta e da altre regioni interne della Siria. Il trasferimento forzato di nuovi abitanti ad Afrin avrà conseguenze anche sul lungo periodo: i residenti costretti a lasciare la città, nel caso in cui riescano a farvi ritorno, rischiano di trovare le loro proprietà occupate dai nuovi arrivati. Una situazione quindi che renderà ancora più difficile il ritorno alla normalità per i rifugiati, una parte dei quali vive attualmente nel campo profughi di Shebha, alle porte della città.

Neanche le istituzioni locali, emblema del Confederalismo democratico, sono state risparmiate. Le milizie filo-turche infatti hanno dismesso le strutture di organizzazione dal basso per sostituirle con Consigli in cui i curdi e le donne sono sottorappresentati e formati principalmente da persone loro fedeli.

Non solo Afrin

Afrin rischia di essere solo la prima di una lunga serie di città sotto occupazione turca in cui milizie cooptate da Ankara o gli stessi militari turchi impongono il loro volere sulla popolazione civile con la forza. Il timore infatti è che una simile situazione si ripresenti anche nella “safe zone” nel nord-est della Siria, principalmente a Serekaniye e Tel Abyad. Sono centinaia le persone che hanno già lasciato le loro case a seguito dell’invasione e il numero è destinato a crescere, lasciando così spazio alla Turchia per l’ennesimo cambio demografico. Una prospettiva che sembra ancora più probabile se si considera che il presidente Recep Tayyip Erdogan vuole avviare un progetto immobiliare nella fascia di confine e rimpatriare almeno 2 milioni di profughi siriani che si trovano attualmente in Turchia.

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