Negli ultimi giorni, l’avventura americana in Siria, prima per sconfiggere lo Stato islamico, poi per un (non ancora chiarito) ruolo di garanzia nel post-guerra, si è arricchito di un nuovo episodio. Donald Trump ha annunciato il ritiro “molto presto” delle forze Usa. Un annuncio arrivato a poche ore dalla notizia del congelamento di 200 milioni di dollari per la Siria.

La pressioni su Trump per evitare il ritiro

La notizia ha immediatamente fatto il giro del mondo. E ha destato perplessità non soltanto fra gli alleati, ma anche nei circoli politici e diplomatici americani. L’annuncio di Trump comporterebbe, se confermato, un rovesciamento epocale delle logiche siriane. E, come scritto su questa testata, le domande su chi possa riempire il vuoto lasciato dagli Usa, non trovano ancora risposte chiare (forse la Francia di Emmanuel Macron).





Fonti vicine al Pentagono hanno espresso dubbi, se non vere e proprie preoccupazioni. La scelta significherebbe l’abbandono degli alleati (i curdi) e dei progetti di incidere sul futuro della Siria. E al Pentagono, dare le chiavi della Siria alla Russia e all’Iran, non è qualcosa che interessi particolarmente. Tanto è vero che dopo l’annuncio di Trump, i vertici militari Usa hanno discusso sull’invio di più truppe. Una confusione totale.

Preoccupazioni sono state espresse anche dall’Arabia Saudita. Il principe Mohammed bin Salmanha chiesto all’amministrazione americana di non ritirarsi dalla Siria. Come scritto da Guido Olimpio per Il Corriere della Sera “Trump ha chiesto che Riad ‘investa’ quattro miliardi di dollari per la ricostruzione e la stabilizzazione della zona settentrionale”. Difficile credere che questo investimento sia realizzato senza garanzie della presenza Usa.  E preoccupazioni sono state espresse anche da Israele, che spera che gli Usa non se ne vadano dalla Siria per evitare che l’Iran ottenga il controllo assoluto del corridoio che collega Teheran al Mediterraneo. E sperano in John Bolton.

Cosa possiamo aspettarci

Va fatta una doverosa premessa: Trump potrebbe anche non fare niente. Del resto è lo stesso presidente che parlava di ritiro e poi ha bombardato la base vicino Damasco. E, come detto sopra, le pressioni sono molte, sia esterne (Israele e Arabia Saudita) sia interne (quei generale a cui Trump dà ampia fiducia). Ma ammettiamo che vada avanti. A quel punto, gli scenari sarebbero molto interessanti e, allo stesso tempo, non per forza forieri di chiarezza.

Una prima conseguenza potrebbe essere il controllo immediato della Siria da parte delle forze del blocco rappresentato da Iran, Russia e Turchia. Scenario che vedrebbe la Siria garantita nella sua unità e nel mantenimento del governo di Bashar al Assad. Ma che comporterebbe anche un Paese nel mirino costante di Israele, preoccupato dall’Iran. Se la Russia decidesse, in futuro, di seguire gli Usa, Israele potrebbe avviare qualche iniziativa. Comunque, tendenzialmente, questo è lo scenario che darebbe più ossigeno al legittimo governo di Damasco.Una seconda conseguenza sarebbe la fine di qualsiasi rapporto fra curdi e Stati Uniti. Il che comporterebbe due effetti: la resa dei conti tra turchi, alleati dei turchi e curdi nel nord della Siria; e la scelta per le milizie curdo- siriane di consegnarsi a Damasco o finire nelle mani dei ribelli filo-turchi, che potrebbero avere mano libera come già fatto con Ramoscello d’ulivo. Uno scenario che già si sta manifestando.La terza conseguenza potrebbe essere un ravvivarsi del focolaio jihadista nella Siria orientale, per ora sedato dalla presenza Usa. Il terrorismo in Siria si è fermato quando tutte le forze coinvolte hanno deciso che Daesh andava sconfitto. Del resto la coalizione a guida Usa non poteva far vedere che l’Isis continuasse a proliferare nell’area da lei controllata. Ma senza truppe statunitensi e con l’Iraq che spinge per annientare le ultime sacche del Califfato, quest’ultimo potrebbe anche riprendere fiato e senza neanche il freno operato dalle forze americane e degli alleati. Che di fatto lascerebbero di nuovo libero lo jihadismo di imperversare nell’est della Siria.

Ed è proprio la parte orientale del Paese a dover preoccupare. Le forze americane, volenti o nolenti, sono un tappo. Da una parte, la Turchia non può avanzare troppo perché sa che si troverebbe di fronte la potenza per eccellenza della Nato. Dall’altra parte, i ribelli sono garantiti dall’ombrello di Washington, che fa sì che Russia, Iran e esercito siriano non possano spingersi oltre una certa linea. E sono un freno anche per l’esercito iracheno, che ribolle al confine. Tolto il tappo, il rischio è che si crei un bagno di sangue per controllare un’area fondamentale. Sembra un paradosso, ma nel regno dell’instabilità, una forza destabilizzatrice ora è una garanzia che non si scateni, di nuovo, l’inferno. E forse, qualcuno vuole avere un motivo in più per rimanere in Siria.

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