Mentre Israele bombarda la Siria, continuano i movimenti degli Stati Uniti nell’area di Manbij, al confine con la Turchia. Nonostante le ripetute minacce di Recep Tayyp Erdogan, il Pentagono ha deciso di tirare dritto. Così, nel silenzio generale, da circa tre mesi, le forze americane hanno aperto una nuova base a Manbij. A confermarlo, un funzionario militare delle milizie locali, intervistato dall’agenzia Reuters e con documentazione fotografica.
Sharfan Darwish, portavoce del Consiglio militare di Manbij e delle Sdf (Syrian democratic forces), ha detto che la nuova struttura ospita anche truppe francesi, arrivate in Siria da qualche settimana nell’ambito dell’impegno di Emmanuel Macron a sostegno delle milizie curde dell’Ypg.
“Dopo l’attacco turco ad Afrin e l’aumento delle minacce turche verso Manbij, le forze della coalizione hanno costruito la base per monitorare e proteggere il fronte”, ha detto Darwish. Un segnale di come la strategia turca e occidentale siano opposte. Per i turchi, ogni postazione curda al suo confine è considerata una minaccia. E per questo hanno iniziato l’operazione Ramoscello d’Ulivo contro il cantone di Afrin che si è poi estesa su tutto il nord della Siria.
Per gli Stati Uniti, che hanno abbandonato i curdi di Afrin all’assedio turco e delle milizie islamiche locali telecomandate da Ankara, adesso è arrivato il momento di riprendere posizione quantomeno a Manbij. Che Erdogan ha più volte minacciato di colpire qualora fosse stato accertato che le milizie curde ne avessero preso il controllo. I curdi ci sono, ma la presenza americana e francese, evidentemente, frena l’avanzata di Ankara.
La coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti ha rifiutato di commentare le osservazioni di Darwish. Ma le foto parlano chiaro: le bandiere Usa e i mezzi americani sono ben visibili. E Manbij è da sempre considerata il nodo della strategia americana nel nord-est della Siria. Soprattutto perché l’avanzata turca e, in particolare, dei ribelli islamisti sostenuti da Ankara, metterebbe a repentaglio gli obiettivi della missione internazionale in tutto l’area di riferimento.
L’obiettivo della campagna della coalizione internazionale a guida Usa, in quell’area, rimane quella di sconfiggere lo Stato islamico. L’Isis, attualmente, è presente in alcune residue sacche di resistenza nella regione al confine fra Siria e Iraq. Lo stesso governo iracheno ha avviato alcune operazioni militari per bombardare le forze terroriste. E non ha negato, in accordo con Damasco, di colpire anche in territorio siriano.
Il problema è che le evoluzioni della guerra di Siria hanno ormai reso chiaro che il Califfato, come organizzazione para-militare, è un problema del tutto residuale rispetto a quello che sta avvenendo. Con i recenti attacchi della coalizione alle basi siriane e con i bombardamenti di Israele alle forze di Siria e Iran presenti nel Paese, ritenere la presenza delle truppe Usa come deterrente anti-Isis è riduttivo.
Il loro obiettivo non è solo il terrorismo islamico. Ci sono motivazioni strategiche di più ampio respiro: posizionarsi nel nord della Siria, consolidare il territorio in mano dei miliziani sostenuti in questi anni, e detenere un potere militare e politico in grado di assegnare a Usa e alleati un ruolo fondamentale nel futuro assetto del Paese. Il tutto con due bersagli: Iran e Russia.