Damasco. Tre viaggi in Siria in meno di un anno e mezzo. E qualche differenza si vede. Primo viaggio, gennaio 2016.  Cala la notte a Damasco e nei quartieri di Jobar e Harasta, dove sono asserragliati, ribelli e jihadisti escono dai tunnel e dalle cantine dei palazzi occupati e cominciano a sparare contro il resto della città. Razzi, colpi di mortaio, raffiche di mitragliatrice. Vanno avanti tutta la notte. La piazza Abbassiyin, dove sorge il grande stadio trasformato in base militare, si spezza brutalmente sulle barricate che dividono la “città di Assad” dalle aree controllate dagli oppositori. Qualunque tragitto in automobile attraverso la capitale diventa un’avventura dai tempi imprevedibili, tra posti di blocco, barriere contro le auto-bomba e controlli a tappeto dei bagagliai e dei passeggeri. Affluiscono a Damasco le persone in fuga da Aleppo, dove la spinta dei jihadisti è ancora forte.Secondo viaggio, gennaio 2017. La gente di Aleppo si aggira tra le macerie di quella che l’Occidente chiama Aleppo Est, per tre anni e mezzo controllata dai miliziani di Al Nusra e delle altre formazioni. Gli antichi mercati, diventati la prima linea di difesa e di attacco dei jihadisti, sono stati abbattuti. Da lì è cominciata la ritirata, che i ribelli hanno gestito proteggendosi con i grandi palazzi dei quartieri popolari. Parlo con una pattuglia di soldati russi che hanno combattuto in città, mi dicono che i miliziani non sono mai sbandati, si sono ritirati con ordine fino alla fine della città, dove sarebbero rimasti allo scoperto e alla mercé delle incursioni aeree. Lì si sono arresi e hanno trattato la tregua.Terzo viaggio, marzo 2017. A Damasco di notte non si spara più. I posti di blocco sono sempre numerosi ma più attrezzati, e i soldati sono meno isterici. Ad Aleppo pian piano si ripristinano i servizi essenziali, acqua corrente ed elettricità per cominciare, e le organizzazioni che si sono battute per aiutare gli aleppini negli anni dei combattimenti lasciano gli interventi d’emergenza (distribuzione di cibo, generi di prima necessità, acqua potabile, cherosene per le stufe) e studiano piccoli progetti per aiutare le famiglie, le giovani coppie, coloro che provano a far risorgere un negozio, un laboratorio, un modo per guadagnare il pane.Bashar al-Assad incontra un gruppo di parlamentari europei e dice loro una cosa giusta: “C’è stata una svolta militare dentro la Siria ma non ancora una svolta politica fuori della Siria”. Il cambiamento è notevole e di certo dipende dall’intervento russo: sul campo partito nel settembre 2015 ma in realtà cominciato prima, con forniture militari che hanno rimesso l’esercito siriano su un piano di parità con gli armamenti dei ribelli. Ma il momento cruciale è arrivato con la riconquista (o l’occupazione, come dicono le opposizioni) di Aleppo. La parte di Paese che non ha abbandonato il governo ha tirato un enorme sospiro di sollievo: il Paese, si sono detti, non cadrà.Anche dal punto di vista politico il significato è enorme. Controllare Damasco e Aleppo è come controllare Roma e Milano. In caso di conflitto in Italia si potrebbe non trattare con chi controllasse Roma e Milano? Ovviamente no. Ma è questo che gli Usa, l’Europa e i Paesi del Golfo Persico, che tanto avevano investito sulla caduta di Assad e sulla sparizione della Siria assadiana dalle carte geografiche, non sono pronti a fare. La Turchia ha già voltato faccia e ora morde la mano di coloro che per anni hanno finto di non vedere quanto Erdogan fosse attivo nel sostegno all’Esercito libero siriano ma anche ai jihadisti, finanziati, armati e riforniti da Ankara., ma senza intraprendere alcuna azione concreta.Assad conosce benissimo certe dinamiche. E forse proprio per questo si è mostrato tanto sicuro di sé nell’intervista concessa ad alcuni giornalisti italiani, tra i quali il sottoscritto. Elegante e cortese, Assad ha parlato dell’Europa in termini quasi beffardi: “L’Europa, o per meglio dire l’Occidente, perché la guida è sempre stata degli americani, ha avuto finora l’unico ruolo di cooperare con gli obiettivi dei jihadisti. Non ha sostenuto alcun processo politico. Ne parla, ma senza intraprendere alcuna azione concreta”. E ancora: “La responsabilità per una parte delle nostre tragedie, dei morti e dei profughi, ricade sull’Europa. Non direttamente ma per il sostegno offerto fin dal principio ai terroristi, definiti ‘moderati’ anche quando si capiva che quella moderazione era solo un’illusione”.Assad promette un referendum per ridisegnare lo Stato siriano e avviare le riforme. Ma solo dopo che ribelli e terroristi saranno stati eliminati o avranno accettato i programmi di riconciliazione nazionale. Il suo esercito, i russi, gli iraniani e i miliziani di Hezbollah avanzano verso Raqqa, la capitale del Califfato, e Idlib, dove le milizie si sono concentrate e dove a tratti si combattono tra loro. Ma lui, come Vladimir Putin, sa benissimo che senza un accordo politico internazionale ogni vittoria sul campo rischia di esser vana. Era questo il vero messaggio dell’attentato messo a segno contro i pellegrini sciiti iracheni a Damasco. La dimostrazione che in Medio Oriente è ben lungi dall’esaurirsi l’immensa riserva di uomini disposti a immolarsi e di petrodollari per pagare il loro sacrificio e alleviare il dolore delle loro famiglie.

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