Di nuovo accuse di un attacco chimico da parte dell’esercito in Siria, questa volta a Douma. Secondo le ricostruzioni dell’ormai famigerato Osservatorio siriano per i diritti umani, sarebbero 70 i morti nelle ultime 24 ore a causa di presunti attacchi con armi chimiche contro la roccaforte ribelle. I caschi bianchi, già noti per le loro parziali ricostruzioni, denunciano l’uso di “gas di cloro tossico”. Mentre i vertici siriani, politici e militari, negano ogni responsabilità del denunciando una “farsa”. Farsa che però potrebbe avere un prezzo molto alto se le potenze della coalizione internazionale a guida Usa decidessero di darle seguito.
I precedenti
Secondo la Rete siriana per i diritti umani, il governo, dopo il famoso attacco di Khan Sheikhoun – quello cui Donald Trump rispose con un curioso lancio di tomahawk – avrebbe usato armi chimiche altre 11 volte. Secondo altre reti di attivisti, generalmente appartenenti ai ribelli, dall’inizio della guerra in Siria l’esercito ha usato armi chimiche almeno 214 volte. Di queste 214, 33 volte sono avvenute prima della risoluzione 2118 dell’Onu del 2013 (qui il testo ufficiale) e 181 dopo la risoluzione. In quel caso, la risoluzione impose la distruzione programmata dell’arsenale chimico siriano.
Secondo il Meccanismo Investigativo Congiunto nato con la risoluzione 2235 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 2015, le forze siriane avrebbero usato armi chimiche almeno tre volte. Poi la Russia ha posto il veto sulle sue attività. Erano troppe le pregiudiziali nei confronti di Bashar al Assad per avere un quadro assolutamente apolitico di una tragedia che ormai è, in ogni caso, macchiata dalla partigianeria
Secondo la Rete siriana, nel periodo compreso tra il 16 e il 18 novembre 2017, il governo avrebbe sferrato tre attacchi chimici. Di questo, uno proprio poche ore dopo il veto della Russia per la seconda volta in 48 ore. Un tempismo che dovrebbe far riflettere: può un esercito essere così sciocco da attaccare con le armi chimiche i suoi civili quando si sta ponendo il veto contro le indagini sull’uso di armi chimiche? Difficile credere le forze armate siriane possano aver ricevuto l’ok da Russia e Iran su un attacco con sarin o cloro.
I depositi non erano stati stoccati altrove?
Dopo la risoluzione del 2013, la Siria, con un’azione congiunta di Russia e Stati Uniti, diede il il via libera alla consegna dei suoi depositi di armi chimiche alla comunità internazionale. Gli Stati coinvolti avrebbero dovuto prelevare e distruggere in siti ad hoc l’arsenale siriano.
Noi, in Italia, ce lo dovremmo ricordare. Nel gennaio del 2014 i media riportarono la notizia dell’arrivo nel porto di Gioia Tauro di una prima nave contenente parte dell’arsenale chimico di Assad. A quel tempo l’allora ministro dei Trasporti Maurizio Lupi lo confermò alle Commissioni riunite Affari esteri e Difesa di Camera e Senato. Ed Emma Bonino, ministro degli Esteri, parlò della “più grande operazione di disarmo degli ultimi anni”.
Il direttore generale dell’Opac, Ahmet Uzumcu, ringraziò l’Italia davanti alle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato per aver messo a disposizione un porto, quello calabrese, per questa pericolosissima quanto fondamentale attività. E la prima nave, la danese Ark Futura, caricò centinaia di tonnellate di sostanze letali da Latakia per trasportarle proprio a Gioia Tauro, dove avvenne il trasbordo sulla nave americana Cape Ray. Quest’ultima li avrebbe distrutti in alto mare.
Alcune perplessità
Dopo i primi carichi di armi chimiche, calò il silenzio. Ma una cosa è certa: Damasco diede l’ok non solo alle indagini, ma anche all’eliminazione dell’arsenale chimico. Da un punto di vista politico e di riconoscimento nella comunità internazionale, che senso avrebbe dare l’assenso a questa distruzione per poi usare i gas tossici contro la popolazione civile? A prescindere da come la si pensi sulla guerra siriana (una tragedia di dimensioni bibliche), occorre capire cosa possa portare nell’immediato un attacco chimico.
Per la Siria, ma soprattutto per i suoi alleati, ogni attacco chimico equivale a un gesto di autolesionismo. In più, le risoluzione Onu parlano di attori statali e non statali all’interno della Repubblica araba di Siria che hanno operato o potrebbero operare attacchi con armi chimiche. La questione dunque diventa molto più importante. Come facevano gli investigatori internazionali ad accedere agli arsenali catturati dalle bande dello Stato islamico o dagli jihadisti che assaltarono le caserme dove erano contenuti questi depositi?
L’idea è che ci si trovi di fronte a un dilemma enorme. Da una parte c’è un governo che aveva un arsenale chimico vietato e che, in teoria, ha dato l’ok alla sua distruzione. Le armi comunque le aveva. Dall’altra parte, i gruppi ribelli, quelli dello Stato islamico e quelli legati ad Al Qaeda hanno avuto il controllo di molte caserme nei primi anni della guerra. Del resto, accade spesso che l’esercito siriano e quello russo rivengano, dopo la riconquista delle roccaforti, laboratori di armi chimiche e tunnel con munizioni vietate. E lo stesso James Mattis disse che, ad esempio, nell’attacco al cloro a Khan Shaykun non c’erano prove di un attacco con sarin da parte di Assad.