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L'”operazione militare speciale” è ufficialmente scattata lo scorso 24 febbraio. In appena ventiquattr’ore, non solo l’esercito russo ha oltrepassato in confini dell’Ucraina senza trovare particolari ostacoli, ma è pure riuscito ad arrivare alle porte di Kiev. Possiamo discutere per ore sulla forza delle truppe del Cremlino, sull’effetto sorpresa – anche se Vladimir Putin stava ammassando i suoi uomini lungo i confini ucraini almeno da novembre – e sul velato supporto fornito a Mosca dalla Bielorussia.

Pur considerando tutte le variabili possibili e immaginabili, resta il fatto che i russi hanno inscenato un’avanzata militare rapidissima. Sembrava davvero che la questione ucraina fosse destinata a risolversi in una manciata di giorni, al massimo una decina. Sappiamo, poi, che non è stato così. Certo, in parte per l'”eroica resistenza” mostrata dall’esercito ucraino, ma anche e soprattutto per il combinato tra alcuni errori strategici commessi da Putin e il supporto fornito dall’Occidente all’Ucraina.

Ma, al di là di questo, vale la pena concentrarci sul primo giorno di conflitto. La velocità con la quale Kiev è stata assediata ci fornisce due indizi che non dovrebbero essere trascurati. Il primo, in parte già evidenziato, è che la missione russa in Ucraina era stata pianificata da settimane se non mesi, mentre il secondo riguarda invece la pianificazione di quella stessa missione.



Se l’esercito scalza i servizi segreti

La Russia ha adottato un vecchio modello militare, concentrando gran parte dei suoi uomini nei pressi del confine con l’Ucraina per poi sfruttare al massimo il loro peso militare nel modo più rapido possibile. Foreign Policy fa notare come un simile modus operandi escluda in toto il Servizio federale per la sicurezza (Fsb) dalla preparazione – tanto meno gestione – della missione. È insomma alquanto plausibile ipotizzare che Putin abbia assegnato all’esercito un ruolo decisivo, lasciando in secondo piano, o peggio all’oscuro, i servizi.

Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un radicale cambiamento gerarchico all’interno del sistema del potere russo. In realtà, in Russia lo spostamento del baricentro decisionale dai servizi al mondo militare era in atto da almeno un decennio. Nessuno, tuttavia, avrebbe mai pensato che il Cremlino lo consolidasse definitivamente proprio in occasione di un’operazione così delicata come quella in corso in Ucraina. Ma basta fare un tuffo nel recente passato per capire di cosa stiamo parlando. Fino a qualche anno fa, l’esercito doveva subire un doppio “smacco”: non era coinvolto nelle decisioni politiche del Cremlino ed era, di fatto, subordinato ai servizi di sicurezza, ovvero all’universo che all’epoca aveva plasmato Putin.

L’artefice del cambiamento

L’importanza raggiunta dall’esercito è adesso ben visibile tanto nelle relazioni tra Mosca e i Paesi vicini quanto negli affari di politica interna. Sembrano appartenere ad un’altra era geologica i tempi in cui l’opinione pubblica russa considerava le truppe nazionali arretrate, poco finanziate e mal gestite. Adesso le forze armate hanno assunto un ruolo chiave nella Russia di Putin, sono sostenute da un apparato industriale e militare non indifferente, e possono contare su armamenti di ultima generazione (ne è un esempio l’utilizzo del missile ipersonico Kinzhal in terra ucraina).


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Pare che dietro a questo cambiamento ci sia un uomo molto vicino a Vladimir Putin: il ministro della Difesa Sergej Shoigu, uno dei volti più ambiziosi della cerchia ristretta del presidente, soprannominato dai media “il falco di Putin”. Nel caso in cui la Russia volesse scatenare una ipotetica rappresaglia nucleare non serve soltanto l’autorizzazione di Putin, ma anche il doppio semaforo verde del capo di Stato Maggiore interforze, Valery Gerasimov, e, appunto, del ministro Shoigu, in possesso di una delle tre chiavi di lancio. Il processo di attivazione delle difese atomiche russe è chiaro: se anche uno solo dei tre codici viene annullato, l’intera procedura si interrompe.

Fallimenti e successi

Da quando Shoigu è diventato ministro (2012), l’esercito ha raccolto una serie di successi non indifferenti, dall’annessione della Crimea nel 2014 all’intervento in Siria un anno più tardi; allo stesso tempo i servizi hanno toppato varie volte, incassando brucianti sconfitte. Ecco, dunque, la chiave che potrebbe spigare perché Putin ha deciso di attuare proprio adesso, e in questi termini, la sua operazione speciale in Ucraina.

Sia chiaro: all’inizio della sua ascesa politica, il capo del Cremlino aveva posizionato i servizi segreti davanti all’esercito, confermando la tradizione sovietica. Solo che l’Fsb non ha portato a casa i risultati che il Cremlino si aspettava. Nel 1999 i servizi hanno gestito la guerra in Cecenia, mentre negli anni a venire erano stati incaricati di monitorare il dissenso delle élite interne ed esterne.

In quel periodo le forze armate, munite di armi risalenti all’epoca dell’Unione sovietica e dotate di una pessima immagine nella società civile, avevano ben poco prestigio. Qualcosa stava tuttavia per cambiare. Nel 2014, durante i tumulti di Euromaidan, Putin aveva inviato a Kiev i servizi di sicurezza affinché aiutassero l’allora presidente ucraino filorusso Viktor Janukovic a sedare le rivolte. L’Fsb non fu in grado di sedare la rivolta. Il capo del Cremlino decise allora di affidarsi all’esercito che, sotto il comando di Shoigu, congelò la Crimea in tempi rapidissimi. Nel 2015 riecco un quadro simile: in Siria, Bashar al Assad stava perdendo terreno e soltanto l’intervento militare russo è stato in grado di ribaltare la situazione salvando il presidente siriano da sorte certa.

Le radici dell'”operazione speciale” in Ucraina

Impresa dopo impresa, l’esercito russo ha scalzato i servizi di sicurezza e Shoigu può essere considerato l’artefice principale di questo cambiamento. Il ministro, una volta entrato nella cerchia di Putin, potrebbe aver indirettamente generato un terremoto tra i corridoi del Cremlino. La giornalista Anna Zafesova ha ben illustrato il sistema di potere presente in Russia utilizzando il concetto delle cosiddette “Torri del Cremlino“.

Con questo termine possono essere indicati i diversi clan di influenza che creano una sorta di equilibrio interno; un equilibrio fondamentale che, secondo questa lettura, impedirebbe alla Russia sia di scivolare verso una totale dittatura che di aprirsi verso una completa democrazia. L’ago della bilancia, e cioè l’incaricato di gestire l’equidistanza delle Torri, è sempre stato Putin. Il corretto funzionamento del meccanismo – nonché il contenimento degli oligarchi – avrebbe fin qui contenuto le pulsioni nazionali in un apparato di potere pubblicamente coeso ma, dietro le quinte, impegnato in una continua lotta per il controllo del potere e per l’ottenimento di una maggiore influenza politica.

Preso per buono il suddetto scenario, non è da escludere che i successi dell’esercito in Crimea e Siria possano aver convinto Putin a “smuovere” le Torri cercando la mossa più azzardata di tutte. La riorganizzazione delle forze armate – per alcuni una vera e propria rinascita – orchestrata da Shoigu e il fatto che quest’uomo non abbia fin qui conosciuto fallimenti, potrebbero aver indotto in tentazione il capo del Cremlino. Ignorando, ma molto più probabilmente bypassando, servizi di sicurezza, intelligence e diplomazia, Putin potrebbe così aver deciso di lanciare la sua missione in Ucraina.

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