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Le esplosioni in Polonia rappresentano un nuovo momento-chiave di questa complessa fase della guerra in Ucraina. La Nato è in stato di massima allerta, Varsavia ha convocato i vertici della sicurezza, gli Stati Uniti non confermano né smentiscono che in territorio polacco siano caduti missili russi o che si sia trattato di un attacco, Mosca nega qualsiasi coinvolgimento smentendo che quelli siano missili utilizzati dalle proprie forze armate.

Nel frattempo dagli Stati Uniti arrivano segnali negativi: l’ipotesi di Washington è che la guerra, almeno fino al prossimo marzo, non sarà interrotta. Sullo sfondo, un vertice di Bali che non ha portato i risultati minimi sperati. In Indonesia, tutti i leader concordano sulla necessità della fine del conflitto. Ma i raid in Ucraina hanno rappresentato un terribile stop a qualsiasi idea di negoziato che i missili in Polonia non fa altro che cementare. Per il consigliere presidenziale ucraino, Mikhailo Podolyak, i bombardamenti russi sulle città e le infrastrutture ucraine sono “l’umiliazione” da parte di Mosca “di tutti i leader che hanno sostenuto l’idea del dialogo con l’aggressore”. “La Russia non può continuare a esistere nella sua forma attuale e con questa élite”, ha continuato Podolyak, “deve perdere, essere punita per aver violato il diritto internazionale e subire una trasformazione politica. Prima lo capiscono tutti, meno vittime ci saranno”. 

Per Dmitri Peskov, potente portavoce di Vladimir Putin, “la Federazione russa continuerà a perseguire i suoi obiettivi nell’operazione militare in Ucraina perché Kiev non vuole negoziare” e chiude alla proposta francese affermando che non c’è alcun “tavolo negoziale”.

Mosca e Kiev, per ragioni chiaramente opposte, giungono paradossalmente alla medesima conclusione: non c’è possibilità di accordo. E infatti, al netto delle richieste provenienti sia da parte occidentale che della potenze asiatiche, non sembrano esservi quelle condizioni necessarie per raggiungere un’intesa tra aggressore e aggredito. Senza nemmeno un cessate il fuoco momentaneo, l’ipotesi di un negoziato a guerra in corso, mentre la Russia bombarda e si ritira e l’Ucraina vuole avanzare nella riconquista subendo i colpi dell’artiglieria sulle proprie città e infrastrutture, appare improbabile. Quantomeno a livello pubblico, nessuno può permettersi di perdere la faccia.

La giornata del 15 novembre non consegna perciò alla diplomazia internazionale alcuna timida svolta positiva. Al contrario, le parole di Washington, Kiev e Mosca e soprattutto le azioni da parte russa sembrano dare una risposta molto chiara sul fatto che un compromesso per ora appare impossibile, non essendovi modo di far convergere le posizioni delle due parti contendenti che anzi, appaiono ulteriormente irrigidite.

Questo nonostante fossero arrivati, almeno nell’ultimo periodo, dei segnali che inducevano (e in ogni caso inducono) a credere che nella politica mondiale si inizi a considerare l’ipotesi di una trattativa. Particolarmente interessanti sono state le fughe di notizie fatte circolare nella stampa Usa e che mostravano le divergenze interne all’amministrazione Biden su come comportarsi con Putin. Qualcuno, specialmente il capo di Stato maggiore Mark Milley, ha sottolineato la necessità di richieste concrete e fattibili da parte di Volodymyr Zelensky, mentre altri, in campo dem ma non solo, ritengono inevitabile proseguire la guerra fino alla completa ritirata delle truppe di Mosca.

Divergenze che non soltanto indicano che il sostegno statunitense al conflitto non sia così granitico, ma anche che da Washington il segnale che deve arrivare a tutti – sia all’opinione pubblica che alla Russia – è che non ci sia un desiderio di perseguire la guerra senza prospettive concrete. Come del resto richiesto dallo stesso consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, al presidente ucraino.

In questo senso, un’ulteriore importante conferma è arrivata dal vertice che si è tenuto ad Ankara tra il direttore della Cia William Burns e il capo del servizio d’intelligence esterno, Sergei Naryshkin. Un nome interessante, dal momento che fu proprio Naryshkin l’uomo pubblicamente redarguito da Putin nell’ormai famosa riunione pubblica prima dell’invasione dell’Ucraina e che esortava il presidente a dialogare con i “partner occidentali” dando loro un’ultima possibilità. In quell’occasione, inoltre, lo stesso capo del servizio esterno anticipò, quasi balbettando, l’annessione delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, mentre il capo del Cremlino ribadiva che si stava parlando di riconoscere la loro indipendenza e non di farle diventare parte della Federazione Russa (cosa che invece si è poi avverata con quelli che la comunità internazionale definisce categoricamente “referendum farsa”).

Il fatto che sia lui a parlare con il capo della Cia – e che questo avvenga ovviamente con il placet di Putin – indica che non solo i rapporti tra Putin e l’uomo dei servizi sono tornati alla normalità, ma forse che il presidente russo voglia far parlare la persona meno convinta della bontà dell’aggressione russa di febbraio. Una scelta che è sicuramente servita a Naryshkin per salvare la propria figura rispetto ad altri esponenti della cerchia di Putin e che forse è servita, oggi, al presidente russo per avere un interlocutore più credibile con le controparti occidentali.

Da Washington ribadiscono che l’incontro sia servito solo a ribadire le linee rosse sull’uso delle armi nucleari, che gli Usa continuano a definire inaccettabile al pari della Cina, e che si tratti regolarmente con Mosca ma mai alle spalle di Kiev. Tuttavia, è chiaro che quel vertice in terra turca – di cui si conoscono solo i capi delegazione – non può non avere avuto al centro dei colloqui il modo per arrivare alla fine dell’invasione. Putin ha più volte ribadito che a suo dire è inutile comunicare con Kiev, perché è Oltreoceano che è decisa la guerra. La Casa Bianca e il Pentagono hanno fatto intendere di essere disposti a dialogare, hanno chiesto alla Cina di Xi Jinping di fare qualcosa. Ma tutto questo passa inevitabilmente per la situazione sul campo e per un’Ucraina che non può accettare un accordo che la veda privata di parti del suo territorio in piena controffensiva.

Quello che per ora appare certo è che, mentre l’avvicinamento dell’inverno potrebbe portare a un congelamento delle operazioni militari e una cristallizzazione del conflitto, la guerra tra falchi e colombe, in tutti gli schieramenti, continuerà anche nel prossimo futuro. In questi giorni sembra essere diminuito il coro bellicista di parte russa, specie del ceceno Khadirov e di Evgenij Prigozhin, il capo della Wagner. E questo potrebbe essere anche un modo per evitare che l’opposizione interna abbia troppo spazio durante la ritirata da Kherson, vista come l’ennesimo smacco.

Tuttavia, l’impressione è che qualsiasi ipotesi di negoziato venga interrotta sul nascere da mosse sul campo o diplomatiche che tendono a evitare anche la minima intesa. Il dialogo passa per un equilibrio estremamente delicato. E certo al momento né da Kiev – che non vuole mostrarsi accondiscendente verso i russi in ritirata – né da Mosca giungono segnali che puntano all’accordo. Quei pochi che giungono vengono immediatamente spenti o completamente rimossi, mentre le posizioni massimaliste inevitabilmente si alimentano. I missili (o frammenti di essi) caduti in Polonia e i bombardamenti sulle città ucraine non fanno altro che scavare ancora di più le distanze.

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