I venti burrascosi della competizione tra grandi potenze sono infine arrivati nella vena scoperta del Medioriente, la Terra santa, dove la data del 7.10.2023 verrà ricordata negli anni a venire come la Pearl Harbour di Israele.

La guerra semi-simmetrica del non-stato Hamas contro la caserma Israele non cambierà la realtà sul campo, perché il divario che separa i due belligeranti è incolmabile, ma ha il potenziale di catalizzare una serie di eventi che passano dal Medioriente, come Transizione multipolare e Pax islamica, e di gettare benzina sul fuoco dell’erà contemporanea. Era di archi di crisi, emergenze, imprevedibilità e volatilità.

Impreparati all’imprevedibile

Una settimana prima che Hamas portasse a compimento la sua Pearl Harbour ai danni di Israele, iniziando la scrittura di un nuovo capitolo del libro infinito delle guerre arabo-israeliane, l’eminenza rossa di Joe Biden, Jake Sullivan, dichiarava ai microfoni dell’Atlantic che “il Medioriente è più tranquillo oggi di quanto lo sia stato negli ultimi due decenni”.

La diagnosi del consigliere per la sicurezza nazionale di Biden si è rivelata errata, come infondata era la serenità dei servizi segreti israeliani e come sbagliate erano le previsioni di chi riteneva improbabile l’invasione russa dell’Ucraina, e non perché Sullivan e colleghi non siano all’altezza dei ruoli rivestiti. L’anacronismo, da cui scaturiscono l’impreparazione all’adattamento e l’inadeguatezza ai tempi, è il principale problema delle classi dirigenti occidentali.

Il momento di transizione post-guerra fredda, contraddistinto dai tentativi degli Stati Uniti di capitalizzare il Momento unipolare all’inseguimento del Project for a new American century, è finito da qualche parte tra la guerra in Georgia del 2008 ed Euromaidan. Ma da Washington a Tel Aviv, passando per la bella addormentata Bruxelles, i decisori occidentali agiscono su una linea temporale che sembra ferma tra il 1999 e il 2003.

Il problema dei decisori occidentali (e di chi li sussurra) è l’anacronismo. Credere che sia (ancora) possibile parlare di Momento americano nell’epoca di imperi redivivi e potenze emergenti che inseguono un mondo multipolare. Credere che sia (ancora) possibile parlare di egemonia economica globale dei G7 nell’era di ASEAN, BRICS e parenti. Credere che i conti in sospeso della Guerra fredda, e la Palestina è uno di questi, non sarebbero stati reclamati da qualcuno nell’età della competizione tra grandi potenze.

L’era degli archi di (poli)crisi

L’America deve prepararsi a “un mondo fuori controllo” scriveva uno dei giganti del Novecento, lo stratega Zbigniew Brzezinski, alla vigilia del Duemila. La storia ha dato ragione a colui che diede il colpo di grazia all’Unione Sovietica, sceneggiando la rivoluzione polacca e la guerriglia afgana degli anni Ottanta, e che nel dopo-11/9 mise in guardia la presidenza Bush dagli effetti a lungo termine delle guerre della War on Terror.

I consigli e le letture del saggio Brzezinski non hanno trovato orecchio disposto all’ascolto ed è così che il Momento unipolare, che primavere arabe, rivoluzioni colorate nell’ex Urss e guerre al terrore, avrebbero dovuto cristallizzare, è divenuto involontariamente il ventre materno della Transizione multipolare. Fenomeno incompreso, talvolta deriso, che ha riacceso conflitti congelati e risvegliato nazionalismi dormienti, generando terremoti geopolitici dall’Europa all’Africa e innescando archi di crisi intra- e intercontinentali.

L’imprevedibilità è la cifra distintiva di questa parte di secolo perché l’arrivo del multipolarismo ha ucciso il mondo dei poliziotti globali. E coloro che si ostinano a vivere nel passato, come la Francia nella coup belt, gli Stati Uniti tra Ucraina e Indo-Pacifico, e Israele con la Palestina, sono condannati a subire quest’imprevedibilità, anziché accompagnarla e, con un po’ di fortuna, cavalcarla.

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