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Nel 2020 la tensione tra India e Cina lungo i confini è esplosa in modo fragoroso. I soldati dei due Paesi si sono scontrati in diverse occasioni da giugno in poi. L’ultimo episodio è stato registrato verso la fine di agosto nei pressi del lago Pangong, in Ladakh. L’esercito indiano ha fatto sapere di aver risposto a un’incursione cinese, ma soprattutto che un battaglione per le operazioni speciali è riuscito a prendere il controllo di un campo cinese con un’operazione condotta qualche giorno dopo. A realizzare il blitz contro è stata un’unità nominata Special Frontier Force (Sff), un corpo composto in gran parte da cittadini tibetani.

Potrebbe sembrare una scaramuccia minore rispetto agli scontri di giugno in cui morirono diversi soldati, ma la novità più importante è che, per la prima volta dagli anni Cinquanta, combattenti di etnica tibetana hanno incrociato le armi con il nemico di sempre: la Repubblica popolare.

Tenuta nascosta per anni, l’azione del Sff stavolta ha avuto un eco mediatico notevole, con ogni probabilità spinto anche dal governo indiano. Negli scontri, infatti, è stata registrata una vittima, il comandante Nyima Tenzin di 51 anni. All’inizio di settembre l’esercito indiano ha svolto le esequie di Tenzin accompagnando la bara con la bandiera indiana, ma soprattutto con quella del Tibet, un simbolo vietato in Cina. Non solo. Al funerale era presente anche Ram Madhav, esponente di spicco del Bjp, il partito del governo e del premier Narendra Modi. Le foto del funerale sono state fatte circolare come messaggio per Pechino, ma soprattutto gettano nuova luce sul ruolo tibetano lungo un confine così caldo.

Una forza tibetana all’ombra della Cia

Questa storia parte da lontano, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Tra il 1950 e 1951 Pechino annette il Tibet mettendo fine alla sua indipendenza. Da quel momento inizia la diaspora del popolo tibetano, soprattutto verso l’India. Qualche anno più tardi, nel 1957 la Cia dà il via a un programma di addestramento per diversi expat tibetani con il compito di condurre operazioni di guerriglia contro l’esercito della Repubblica popolare. Due anni dopo in Tibet scoppiano senza esito una serie di insurrezioni armate che costringono migliaia di civili alla fuga, compreso il Dalai Lama che trova rifugio con il suo governo nella città di Dharamsala. Il flusso di profughi tibetani finisce così per ingrossare i ranghi dei guerriglieri reclutati dalla Cia, ma anche l’’India fiuta l’opportunità di costruire un nuovo corpo di élite.

Nel 1962 Nuova Delhi è infatti uscita sconfitta da una guerra proprio con la Cina perdendo il controllo della regione del Aksai Chin e ogni mira sul Tibet. Quell’esperienza traumatica dimostra all’esercito indiano la necessità di creare un corpo di truppe di montagna capace di condurre operazioni ad alta quota. Per questo motivo la scelta più avvia ricade suoi di tibetani.

Il nucleo tondante delle Sff viene costituito dall’Intelligence Bureau, i servizi interni indiani, per poi passare al Research and Analysis Wing, il ramo dell’intelligence per le operazioni all’estero. Nel novembre del ’62 il gruppo prese il nome di Establishment 22, in onore del fondatore Sujan Singh Uban che nel corso della Seconda Guerra mondiale aveva presentato servizio come comandante del 22esimo reggimento di montagna dell’esercito Anglo-Indiano. Nel 1967 il gruppo viene definitivamente nominato Special Frontier Force.

Nel corso degli anni ’60, pur sotto il controllo diretto dell’India, le Sff godono ancora dell’appoggio della Cia, che a metà del decennio si appoggia proprio a loro per condurre operazioni di spionaggio nei confronti proprio della Cina per monitorare lo sviluppo del programma nucleare e per installare e controllare dispositivi radar di monitoraggio nei pressi del confine tra Cina e India.

La prova delle armi: in guerra con il Pakistan

Tra il 1971 e 1972 l’amministrazione di Richard Nixon pone fine al programma di appoggio e avvia la diplomazia di apertura nei confronti di Pechino. Intanto verso la fine del 1971 si presenta la prima occasione delle Sff sul campo di battaglia. Tra il 3 e il 17 dicembre venne combattuta la terza guerra tra India e Pakistan congiuntamente alla guerra di liberazione bengalese. In quell’occasione circa 3 mila uomini delle Sff vennero paracadutati dietro le linee nemiche nei pressi di Chittagong, nell’attuale Bangladesh. Secondo le cronache dell’epoca il gruppo riuscì con successo a condurre una violenta guerriglia contro le forze pakistane impedendo in molti casi il ripiegamento verso la Birmania.

Negli anni sono stati poi dispiegati anche in altri scenari. Nel 1984 hanno preso parte all’Operazione Blue Star contro un gruppo di ribelli Sikh nel Punjab, ma soprattutto all’Operazione Meghdoot, che ha permesso alle forze indiane di prendere il controllo del ghiacciaio Siachen, nel Kashmir, ai danni del Pakistan, diventando così il primo e unico esercito a condurre operazioni sopra i 5 mila metri di quota. L’ultima operazione sui campi di battaglia per le forze tibetane è arrivata nel 1999 nel corso della guerra del Kargil durante la quale l’esercito indiano è riuscito a strappare al Pakistan proprio il distretto di Kargil.

La Special frontier force nel 2020

Oggi tra le fila delle Sff ci sono anche combattenti indiani e nepalesi, ma l’identità e il cuore restano quelli tibetani, basti pensare che il simbolo del gruppo è il leone delle nevi, lo stesso presente sulla bandiera del Tibet. Il gruppo ufficialmente risponde direttamente al governo e oggi può contare su una forza di circa 5mila uomini.

Nel corso degli anni il dispiegamento di queste forze tibetane è sempre stato nascosto e poco pubblicizzato all’India. Nata dopo una sconfitta contro la Cina, la Sff non è mai stata impiegata contro la Repubblica popolare per timore che alcuni elementi del gruppo potessero farsi prendere la mano contro l’odiato nemico. Questo almeno fino a quest’estate.

L’ombra di una guerra con la Cina

La scelta di Nuova Delhi di far uscire le fotografie del funerale, ma sopratutto di tenere le forze tibetane in una zona sensibile come il Ladakh, rappresenta un cambio di marcia notevole nel rapporto con Cina e Tibet. Dal 2003, infatti, l’India ha riconosciuto la regione come parte integrante della Repubblica popolare e rimarcato in molte occasioni di non avere interessi ad alimentare la resistenza anti-cinese. Robert Barnett, ex direttore del programma di Titetan Studies alla Columbia University, ha spiegato al Financial Times che la scelta di Nuova Dehli di mostrare foto di soldati con drappi tibetani è un messaggio diretto a Pechino: “Abbiamo la carta del Tibet e la possiamo giocare”.

Raccontare il confronto tra Cina e India lungo il confine tenendo conto della variabile tibetana aiuta a capire perché gli scontri di agosto rappresentano qualcosa di diverso. Oltre al Ladakh, cinesi e indiani si fronteggiano per il controllo dell’Arunachal Pradesh, una regione indiana incastrata tra Cina, Bhutan e Bangladesh. Per Pechino si tratta di uno snodo delicatissimo. Molti analisti sostengono che addirittura che il Dragone sia ossessionato da un piccolo centro presenze nell’area, la cittadina di Tawang, dove si trova un monastero buddista tibetano del 16esimo secolo e che sarebbe il luogo di nascita nel sesto Dalai Lama.

L’obiettivo di Pechino, ha spiegato sempre al Ft il prof. Fang Tien-Sze della Tsing Hua University di Taiwan, è quello di prendere Tawang per rinsaldare il suo controllo sul Tibet e sulla popolazione. Il governo cinese, spiega Fang, vuole fare in modo che non ci siano più territori fuori dalla Cina in cui sia possibile la reincarnazione di un nuovo Dalai Lama. Per questo la pressione sull’India resta massima.

Per questa ragione l’India ha scelto il doppio binario. Da un lato ha avviato con i vicini un percorso di de-escalation, dall’altro ha smesso di nascondere le operazioni della Special Frontier Force. Intanto la comunità tibetana ha vissuto i fatti di agosto con un forte senso di orgoglio. Il South China Morning Post ha parlato con alcuni esuli tibetani nel Nord dell’India e fra di loro c’è molta eccitazione. Il rancore nei confronti dell’annessione cinese è ancora forte e lo scontro in Ladakh è stato il primo vero momento in cui il corpo tibetano ha potuto combattere direttamente con gli invasori.