Si chiama Rojda Felat. È una donna ed è curda. Sarà lei, insieme con altri ufficiali delle Forze Democratiche Siriane, a comandare l’assedio di Raqqa, l’ultima grande battaglia dell’operazione “Ira dell’Eufrate”. Della sua vita si sa poco o nulla, le fonti sono pochissime e, nonostante tutto, contradditorie. Jihan News, agenzia di stampa turca, afferma che dovrebbe essere nata nel 1980 ad Al-Hasakah, Kurdistan siriano e questa sembra la versione più accreditata. Altre fonti, non confermate, dicono sia nata chi nel 1968, chi addirittura nel 1962, e non sarebbe siriana ma turca. C’è chi dice che fosse una laureata in lettere, prima dell’approdo nelle forze combattenti curde nel 2013. Per il resto, non si sa nulla. Il suo passato è avvolto nel mistero e tutto questo consegna alle cronache l’immagine di un personaggio quasi romantico, senza tempo, un’eroina di guerra contro l’esercito del Califfato.Rojda Felat adesso è lì, a pochi chilometri da Raqqa, dopo aver combattuto insieme alle tante donne del battaglione delle Forze Siriane Democratiche (SDF) che è riuscito a liberare la diga di Tabqa dopo cinquanta giorni d’inferno. Il supporto degli Stati Uniti è stato fondamentale per riuscire a dare una svolta alla campagna intrapresa a fine 2016 per avanzare verso la capitale del sedicente Stato Islamico. Ora, le truppe del Daesh attendono quella che potrebbe essere una battaglia decisiva per il futuro non solo del loro esercito ma anche di tutta la Siria. La corsa a Raqqa è di vitale importanza e i soldati del califfo hanno iniziato a smobilitare, consapevoli che la perdita di una città così importante sotto il profilo logistico e propagandistico sarebbe una sconfitta sotto ogni punto di vista.Le donne curde combattono insieme con tutti i miliziani delle Forze Democratiche Siriane di varie nazionalità per sconfiggere l’Isis, supportati, come detto, dalla coalizione internazionale a guida americana. La figura di Rojda Felat è solo l’emblema di un esercito, quello curdo, che fa dell’uguaglianza di fronte al nemico l’emblema di una guerra che non è soltanto una guerra di matrice militare, ma anche, e soprattutto una guerra di civiltà. È una guerra dove c’è, sicuramente, il Male, e lo vediamo ogni giorno dai reportage e dalle immagini che giungono dal fronte siriano. Uomini brutalmente assassinati, fosse comuni, donne schiavizzate e bambini presi e portati nel baratro della guerra e addestrati come novelli jihadisti. Una guerra dove il rispetto verso l’essere umano ha lasciato il posto alla barbarie. Ma esiste comunque, anche in questo buco nero di perversione, un barlume di speranza, che, se non è la diplomazia internazionale, è certamente l’impegno di molte donne curde in questo conflitto. C’è un messaggio molto profondo in quest’immagine che vediamo, di questo comandante alla testa delle truppe curde a Raqqa. Ed è un messaggio rivolto non soltanto verso il nemico del Califfato, ma anche verso tutto un pianeta, quello sunnita radicale, wahabita o salafita, che ha da sempre reso la donna un oggetto nelle mani degli uomini.È curioso pensare che queste donne curde combattano al fianco di alleati di potenti monarchie dove le donne non hanno alcun potere. Ed è anche difficile credere che queste ribelli combattano contro un radicalismo islamico che, in fondo, non è distante da molti loro “amici” ribelli che lottano contro Damasco. Il fronte della ribellione siriana e irachena è composto da tutti, come è evidente. C’è chi vorrebbe fondare una Siria laica, chi una Siria islamista, chi consegnarla all’Occidente. Ma c’è anche chi, evidentemente, combatte prima di tutto contro lo Stato Islamico. In questo, c’è anche l’esercito di cui fanno parte le migliaia di donne curde che hanno dovuto scegliere fra imbracciare un fucile o vedere il proprio villaggio devastato dalla furia barbarica del Califfato.Rojda Felat non è un segnale che qualcosa sta cambiando rapidamente. La Siria laica e rispettosa delle donne è ormai un’antica realtà inondata dall’orrore della guerra. E sarà difficile far comprendere a molti dei ribelli che le donne sono loro pari. Ma l’immagine di queste donne che combattono potrebbe effettivamente essere un’immagine forte, per risvegliare quantomeno la coscienza di molti. Rojda Felat è lì con loro, a rischiare la vita per un popolo libero, quello curdo, e per sconfiggere un nemico, il Daesh, che rappresenta la negazione di ogni libertà. Con lei vi saranno altre donne, centinaia, che hanno seguito l’esercito di liberazione curdo dai tempi della prima ondata di attacchi del Califfato. Se l’uguaglianza non la otterranno a parole, è bello pensare che la otterranno con i loro gesti, conquistando con i commilitoni la città di Raqqa.





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