Era il 25 agosto 2017 quando, in risposta alle azioni di guerriglia dell’Arakan Rohingya Salvation Army (Arsa), gruppo militante composto da membri della minoranza musulmana dello Stato federale di Rakhine, le forze di sicurezza birmane iniziarono l’ultima e più dura operazione nelle terre abitate dai Rohingya, soggetti da allora a un durissimo trattamento da parte dei militari, che di recente le Nazioni Unite hanno condannato senza appello.

In un dossier pubblicato a un anno esatto dall’inizio delle violenze, l’Onu ha infatti dichiarato che “le tattiche dell’esercito regolare sono state del tutto sproporzionate rispetto alla minaccia alla sicurezza”. Soprattutto, “il livello dell’organizzazione della campagna militare, la scala della brutalità e della violenza, indicano un piano per la distruzione della minoranza che equivale al genocidio“. 

Perché è stato diverso

In precedenza, in due diverse occasioni i Rohingya erano stato oggetto di un giro di vite da parte delle autorità birmane: nel 2012 e a cavallo tra il 2016 e il 2017, infatti, la sovrapposizione tra le azioni dell’Arsa, la marginalizzazione legale a cui sono sottoposti i musulmani birmani e la durezza dei militari avevano causato centinaia di morti e, nel 2016, la fuga di 100mila Rohingya verso il vicino Bangladesh.

Quanto accaduto nell’ultimo anno, invece, è stata definita “una prevedibile e pianificata catastrofe”. Sei generali, compreso il comandante in capo dell’esercito nazionale birmano, Min Aung Hlaing, sono stati indicati dall’Onu come i pianificatori della campagna anti-Rohingya. Tra agosto e settembre 2017 oltre mezzo milione di Rohingya abbandonò la Birmania, dato che i militari birmani avevano reagito in maniera spropositata agli attacchi dell’Arsa.

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Incendi, stupri, omicidi extragiudiziari, esecuzioni di massa hanno portato a 7mila morti nei primi mesi delle operazioni e, secondo le stime di Medici Senza Frontiere, a un totale di 10.000 vittime. Da papa Francesco a Emmanuel Macron, passando per Theresa May e l’ex Segretario di Stato Usa Rex Tillerson, numerosi leader internazionali hanno fatto pressioni sulla Birmania per gestire la fine della crisi e, soprattutto, il problema dei rifugiati.

Allo stato attuale delle cose, solo 400mila Rohingya vivono in Birmania, che nella loro patria hanno oramai la terza più piccola comunità dopo quelle in Bangladesh (1,3 milioni) e Arabia Saudita (500mila). Le pressioni per la risoluzione della crisi hanno in particolar modo toccato la più controversa personalità del governo birmano: l’ex paladina dei diritti umani e Premio Nobel Aung San Suu Kyi.

I silenzi di Aung San Suu Kyi sui Rohingya e la sua posizione precaria

Non si può dire che la posizione della San Suu Kyi sia facile: de facto leader del governo di Naypyitaw, l’ex Premio Nobel deve tuttavia fare i conti con la grande influenza tuttora detenuta dai militari che nel 2015 hanno garantito il ritorno alla democrazia dopo decenni di dittatura.

Per lunghi mesi l’ex attivista diventata governante ha ostentato un freddo, distaccato silenzio verso la tragedia dei Rohingya. Silenzio definito da Guido Santevecchi del Corriere della Sera “impotente e dettato da realpolitik”, dalla “sua volontà di arrivare alla riconciliazione con i militari che per anni l’avevano detenuta”. Parere che riflette quanto espresso dall’Onu, che ha tirato in causa Aung San Suu Kyi per il suo rifiuto di esercizio dell’autorità morale volta a fermare le violenze anti-Rohingya. Secondo quanto contenuto nel rapporto, le autorità civili avevano sì poco margine, ma “attraverso le loro azioni e omissioni, hanno contribuito alla commissione dei crimini atroci”.

Il “vi chiedo perdono per l’indifferenza del mondo” pronunciato da Papa Francesco nel corso del suo viaggio in Estremo Oriente del novembre scorso di fronte a un gruppo di profughi Rohingya in Bangladesh è stato accomunato, negli stessi giorni, dal rifiuto di pronunciare il nome del popolo oppresso da parte del Pontefice in occasione del suo passaggio in Birmania. Segno che anche per la San Suu Kyi l’equilibrio è fin troppo precario, il filo attualmente teso potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.