Guerra /

La crisi della regione birmana di Rankhyine sembra non avere fine. Sono ormai più di 400mila i profughi di etnia Rohingya che hanno raggiunto il Bangladesh in condizioni disperate. Dopo essere fuggiti dai loro villaggi dati alle fiamme dall’esercito birmano tentano di salvarsi a bordo di imbarcazioni di pescatori bengalesi che transitano sul Naf, fiume che separa la Birmania dal Bangladesh. Molti hanno addirittura cercato di attraversare il fiume a nuoto trovandovi però la morte. Chi è riuscito a mettersi in salvo vive in campi profughi allestiti dal governo bengalese e dalla Croce rossa internazionale senza medicinali, cibo e acqua potabile e la situazione continua a degenerare, tanto che le organizzazioni umanitarie paventano la comparsa di una grave epidemia di colera. Da tutto il mondo si susseguono le critiche al premio nobel Suu Kyi. L’ultima in ordine di tempo arriva dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan. “Al momento, c’è un terrorismo buddista in Birmania. Non è una cosa che si possa nascondere dietro lo yoga e cose del genere”.

In molti parlano di chiari ed evidenti prove di genocidio accusando la leader birmana di non fare abbastanza per fermare queste violenze portate avanti, oltre che dai militari, anche da molti estremisti buddisti tra cui spicca il nome di Ashin Wiratu, un monaco buddhista guida del movimento anti-islamico Ma Ba Tha (organizzazione per la protezione della razza e della religione). Wiratu, già condannato nel 2003 a 25 anni di carcere a causa dei suoi violenti sermoni (fu poi scarcerato nel 2010), continua la sua campagna di odio contro i Rohingya, attraverso i social media nei quali definisce i musulmani “serpenti” e “cani pazzi”. Non è la prima volta che il monaco fa parlare di sé, anni fa infatti propose una legge che proibisse i matrimoni misti tra buddhisti e musulmani e salutando con favore le leggi volte a perseguitare la minoranza Rohingya dello stato di Rankhyine attirandosi perfino le critiche del Dalai Lama. Cristiche a cui sembra non aver fatto troppo caso visto, dalla sua roccaforte nel monastero di  Ywama Pariyatti ha infatti continuato ad esortare i suoi adepti alla battaglia per fermare “l’islamizzazione del Mnyanmar”. Oltre a questa deriva fondamentalista che ottiene sempre più successo tra i buddhisti, il governo birmano e il suo presidente devono fare i conti con frange dell’esercito ancora legate alla vecchia giunta militare che proprio nello stato di Rankhyine sembra godano di un’autonomia decisionale fuori dal normale. Aung San Suu Kyi si trova quindi in una situazione quantomeno imbarazzante e il suo cinico silenzio sulla vicenda dei Rohingya è dovuto essenzialmente a questa sua debolezza interna (posizioni chiave del ministero della Difesa sono ancora in mano a uomini dell’ex giunta militare).

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Da parte loro i Rohingya, la cui persecuzione non inizia certo oggi, hanno deciso di impugnare le armi e difendersi, in molti infatti sono andati ad ingrossare le fila del gruppo armato ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) conosciuto anche col nome di Harakat al-Yakin (Movimento per la fede). Il gruppo armato è guidato da uomo chiamato Ata Ullah di cui si sa poco o nulla. Nato a Karachi in Pakistan da genitori di etnia Rohingya emigrati là per cercare riparo dalle persecuzioni. Il Pakistan è da sempre fucina di terroristi islamici e non è difficile credere che Ata Ullah vi abbia ancora contatti che possano fornirgli assistenza finanziaria e logistica. Sono in molti a sostenere che si sia poi spostato in Arabia Saudita, stato nel quale mantiene ancora contatti con gruppi islamici fondamentalisti. Nell’unica intervista concessa qualche tempo fa all’americana CNN lui ha negato di avere contatti con qualsiasi gruppo salafita che opera in Pakistan Bangladesh e Afghanistan. Già nel dicembre 2016 l’organizzazione di prevenzione del terrorismo International Crisis Group denunciava la presenza tra le fila dell’ARSA di uomini addestrati all’estero e con esperienza delle tattiche di guerriglia. Al momento non esistono prove di supporti ricevuti fuori dai confini birmani, ma è evidente, dati alla mano, che le azioni di guerriglia del gruppo ARSA sono decisamente aumentate sia nel numero che nell’efficacia. Le imboscate ai convogli militari sono sempre più frequenti, motivo per cui anche Aung San Suu Kyi ha negato la richiesta di cessate il fuoco richiesta da Ata Ullah definendo il movimento ARSA un “gruppo terroristico”.

In rete circolano diversi video in cui si vedono alcuni guerriglieri indossare tute mimetiche e armamenti pesanti mentre invitano i loro sostenitori ad unirsi nella lotta contro il governo birmano. Ata Ullah ha sempre respinto queste affermazioni sostenendo che le armi sono state sottratte all’esercito e che gli unici fondi che ricevono provengono dai Rohingya stessi. In effetti al momento non esistono prove certe di collegamenti tra i gruppi di estremisti islamici dell’area e ARSA, ma recentemente al-Qaeda ha lanciato un comunicato nel quale si invitano i musulmani di tutto il mondo “in particolare coloro che risiedono in Bangladesh, India, Pakistan e Filippine” a fornire supporto ai correligionari birmani “finanziariamente, militarmente e fisicamente”. L’appello è stato subito accolto dal movimento Jihadista Anṣār Ghazwat al-Hind, fondato nel luglio di quest’anno e che opera prevalentemente nel Kashmir ma ha ramificazioni anche nel Sud-Est asiatico. Non è difficile credere che ben presto altre sigle jihadiste si uniscano all’appello portando ulteriore caos in una Birmania già straziata da decenni di massacri.

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