Entro la fine di quest’anno l’industria bellica della Turchia segnerà un nuovo record delle esportazioni: il settore ha visto aumentare del 38% da gennaio a ottobre il volume di affari per l’export ponendosi al primo posto dei beni prodotti da Ankara diretti all’estero.
Il valore delle esportazioni del settore difesa turco ammonta, nei primi 10 mesi del 2019, a 2,14 miliardi di dollari, come riporta l’agenzia stampa turca Anadolu in base ai dati rilasciati dalla Turkish Exporters Assembly e dalla presidenza delle industrie della Difesa, apprestandosi a sgretolare il record dell’anno precedente pari a 2,19 miliardi di dollari.
Una crescita nonostante l’embargo
L’embargo sugli armamenti recentemente elevato verso la Turchia a seguito dell’azione intrapresa nel nord della Siria per eliminare la presenza delle milizie curde dell’Ypg (l’operazione “Sorgente di Pace”), non ha quindi intaccato il volume di affari delle esportazioni degli armamenti turchi. Anzi. Secondo quanto riferito dallo stesso ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, l’embargo non ha fatto altro che rafforzare l’industria locale spingendola a sopperire alla mancanza di mezzi e parti che arrivavano dall’estero.
Le vendite delle sole industrie leader della Difesa turco sono aumentate di più del 10 percento dal 2015 a oggi, ponendo la Aselsan e la Tai (Turkish Aerospace Industries) tra le prime 100 al mondo. Un risultato non da poco ottenuto proprio grazie alla politica turca sull’acquisizione degli armamenti da parte di Paesi esteri: Ankara, infatti, acquista sistemi d’arma all’estero solo in funzione della cessione dei diritti di produzione su licenza di interi sistemi o di parti di essi. Era avvenuto così per l’F-35, la cui produzione di componentistica dei motori e di sottosistemi era affidata a industrie turche, sta avvenendo così anche per gli S-400 russi, e non è escluso che, se davvero si raggiungerà l’accordo con Mosca per la vendita dei cacciabombardieri Su-35, non avvenga altrettanto.
Del resto gli F-16 che sono in linea nell’Aeronautica militare turca sono prodotti dalla Tai su licenza, così come avviene per gli elicotteri T-129 “Atak”, la versione turca degli italiani AW-129 “Mangusta”. Senza dimenticare tutta la serie di veicoli terrestri, cannoni e obici costruiti in Turchia e derivati, o copie, di modelli occidentali come la Cobra, un mezzo blindato derivato dall’americana Humvee e costruita dalla turca Otokar, o i cannoni semoventi da 155 millimetri T-155 Firtina, che sono una copia locale su licenza del self propelled gun sudcoreano K9 Thunder.
Singolarmente, ma non troppo proprio in considerazione di quanto appena detto in merito all’F-35, gli Stati Uniti erano il primo Paese destinatario dell’export di sistemi d’arma made in Turkey con un valore di 657,6 milioni di dollari seguito dall’Oman con 213,5 mentre la Germania era terza con 185,5 milioni sempre nel medesimo periodo di riferimento (gennaio-ottobre 2019).
Una crescita costante a partire dal 2001 che ha dimostrato di accelerare quasi esponenzialmente a partire dal 2009 senza conoscere particolari contrazioni, come si può vedere dal grafico dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri).
Cosa esporta la Turchia?
L’industria bellica turca, come abbiamo detto, copre tutti i settori della Difesa ed è in grado di sviluppare diversi sistemi d’arma, dai veicoli blindati trasporto truppe sino ai più complessi come elicotteri da combattimento e fregate. Le punte di lancia dell’export turco, oltre agli elicotteri T-129 per i quali c’è stato l’interessamento del Pakistan poi congelato a seguito della crisi con gli Stati Uniti per la questione S-400/F-35, sono i veicoli da trasporto truppe.
Negli ultimi 10 anni centinaia di Bmc Kirpi, un veicolo 4×4, sono stati venduti alla Tunisia e al Turkmenistan, mentre la già citata Cobra è in servizio degli eserciti di Bahrein, Bangladesh, Mauritania e Ruanda.
Nella lista ci sono anche Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Algeria che generano, rispettivamente, il 12, 9,5, 5,1, 4,6 e 4,4 percento del fatturato delle esportazioni di armamenti turchi.
Una diffusione capillare quindi, che è destinata in particolar modo ai Paesi del Medio Oriente o comunque musulmani, rivelando così l’intenzione di Erdogan di far diventare la Turchia il punto di riferimento per il mondo islamico e così assurgere a potenza regionale in grado di imporre la propria politica non solo nelle aree limitrofe ma, potenzialmente, di proiettarsi in altre regioni del globo.
Non è infatti un mistero che Ankara sia molto attiva in Africa, dove ha aperto la più grande base militare turca in territorio straniero in Somalia con un investimento di circa 50 milioni di dollari, e ha costruito altre infrastrutture nel Paese tra cui la sistemazione del porto e dell’aeroporto di Mogadiscio.