Il presunto attacco chimico a Douma si è verificato il 7 aprile 2018, mentre la città vive momenti concitati dovuti all’evacuazione dei ribelli islamisti dal centro urbano. La notizia arriva ad un anno di distanza esatta da quella sul presunto attacco a Khan Sheikhoun nella provincia di Idlib e a quasi cinque anni dal presunto bombardamento chimico di Jobar.
Douma prima dell’attacco
Douma è la più grande e importante città della Ghouta. Dal 2012, questa regione è occupata dalle milizie ribelli, in particolare Al Nusra, Esercito dell’islam e Ahrar Al Sham.
All’inizio del 2018 la guerra in Siria assume una connotazione ben precisa e favorevole alla vittoria finale del governo guidato dal presidente Bashar Al Assad. Con la liberazione di Aleppo, avvenuta nel dicembre 2016 e con la fine del califfato islamico dell’Isis, i vertici politici e militari siriani decidono di riconquistare Ghouta.
L’attacco ai territori occupati attorno a Damasco parte nel febbraio del 2018: non solo raid e incursioni aeree da parte dell’aviazione russa e siriana, ma anche operazioni di terra che, nel giro di poche settimane, liberano dal giogo islamista gran parte della zona rurale della Ghouta. A questo punto, il rischio di un combattimento casa per casa e di un relativo bagno di sangue nella zona urbana della Ghouta si fa concreto.
Per questo motivo, a Douma e in altre città della regione, Russia e Turchia iniziano un’opera di mediazione volta a scongiurare il peggio. Gli islamisti, vedendosi circondati dall’esercito siriano, capiscono che l’unica possibilità di sopravvivere è quella di trasferirsi a Idlib. E così, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, diverse città della Ghouta (Irbin, Harasta e il quartiere damasceno di Jobar) tornano in mano ai governativi.
Ma a Douma la situazione appare diversa: qui governano gli uomini dell’Esercito dell’islam, che non accettano la resa. Il motivo è duplice: da un lato, la formazione islamista appare spinta da un certo fanatismo; dall’altro, le frizioni tra l’Esercito dell’islam e Al Nusra non rendono agevole lo spostamento a Idlib.
Il presunto attacco chimico di Douma
Dal 5 aprile, i combattimenti a Douma iniziano ad essere meno intensi. La trattativa mediata da Mosca e Ankara sembra poter dare i suoi frutti e l’esercito governativo preferisce aspettare. È in questo contesto che, nel pomeriggio del 7 aprile, viene lanciata la notizia di un presunto attacco chimico a Douma.
L’indiscrezione circola sul web in diversi siti ricollegabili all’opposizione siriana e viene subito accusato Assad. Vengono diffuse le foto di persone intossicate e dei Caschi Bianchi che gettano acqua sui feriti, tra cui molti bambini che appaiono in difficoltà respiratoria. Le immagini sono riprese in un luogo chiuso, dove viene radunata la gran parte dei feriti. I soccorritori usano pompe d’acqua e in alcuni casi indossano una mascherina.
Le reazioni all’attacco di Douma
Poche ore dopo la diffusione della notizia, molte cancellerie occidentali accusano Bashar al Assad. La situazione appare da subito molto simile a quella già vissuta esattamente un anno prima, dopo un presunto attacco chimico a Khan Shaykhun, nella provincia di Idlib.
Le accuse più gravi provengono da Washington. Il presidente Donald Trump parla di “red line” nuovamente superata da parte di Assad, definito un criminale senza scrupoli. Anche Francia e Gran Bretagna puntano subito il dito contro il presidente siriano.
Washington e Parigi, in particolare, sostengono di avere le prove dell’uso di armi chimiche da parte del governo siriano. Si pensa a raid mirati contro la Siria e nel Paese inizia un vero e proprio conto alla rovescia in vista dell’attacco.
Assad smentisce l’uso di armi chimiche a Douma
Il presidente siriano smentisce ogni uso di armi chimiche a Douma. Secondo il governo di Assad, si tratterebbe solamente di una messinscena mediatica per destabilizzare lo Stato siriano. Il dittatore sostiene l’inutilità di un attacco chimico contro una città prossima ad essere conquistata dall’esercito.
Il 7 aprile, l’Esercito dell’islam accetta di esser trasferito a Jarabulus e il 10 aprile i governativi annunciano la definitiva riconquista di Douma.
La Russia chiede un’inchiesta internazionale
Contro l’eventualità di un attacco degli Usa contro la Siria, si muove il governo russo. Vladimir Putin, stretto alleato di Assad, chiede che le autorità internazionali investighino sul presunto attacco chimico.
Dal Cremlino, in particolare, si propone un’indagine indipendente e terza sia rispetto alle fonti dell’opposizione che a quelle di Damasco.
Dopo la liberazione di Douma, reparti della polizia militare russa entrano nella città per raccogliere indizi sufficienti ed avviare le indagini.
L’attacco di Usa, Francia e Gran Bretagna
Dopo giorni di intensi colloqui diplomatici, alternati a vere e proprie minacce dei leader di Usa, Francia e Gran Bretagna, nella notte tra il 13 ed il 14 aprile viene lanciata la rappresaglia contro Damasco: Trump, Macron e May danno il via libera ai raid.
In un primo momento, l’attacco sembra avere una vasta portata ma, con le prime luci dell’alba, tutto appare ridimensionato e non ci sono vittime.
Il sistema difensivo siriano non appare pesantemente danneggiato: i radar e le strutture delle basi colpite risultano operativi già poche ore dopo i raid. Secondo i leader dei tre Paesi coinvolti nel bombardamento, la missione è un successo in quanto avrebbe colpito chirurgicamente i siti dove il governo siriano nasconderebbe laboratori in grado di assemblare ordigni chimici.
Le prime inchieste sull’attacco di Douma
Dopo il raid occidentale, vengono avviate alcune inchieste sia di enti internazionali che privati. Un primo racconto dettagliato di quanto avvenuto a Douma il 7 aprile 2018 arriva dal sito di approfondimento Bellingcat, fondato dall’inglese Eliot Higgins, che attribuisce la responsabilità al governo siriano. Nell’inchiesta si fa riferimento ai luoghi dove sarebbe avvenuto il raid per mezzo di armi chimiche: si tratterebbe, in particolare, del quartiere di via Omar ben al Khattab e della zona posta nelle vicinanze di piazza al Shuhada. Nei due attacchi, sarebbero morte quasi 70 persone, tra cui donne e bambini. I video messi in rete nelle ore successive sarebbero stati girati in locali e magazzini posti nelle vicinanze delle due zone sopra indicate.
A dar manforte all’inchiesta di Bellingcat, è il New York Times. Il quotidiano statunitense afferma infatti di aver visionato una ventina di video provenienti da Douma e che i sintomi riscontrati nei feriti e il ritrovamento di un contenitore di gas tossico nei pressi di piazza al Shuhada farebbero cadere la colpevolezza sul governo siriano.
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Contro queste conclusioni però, si schiera Robert Fisk. Il giornalista britannico raggiunge Douma pochi giorni dopo l’attacco e non trova alcuna traccia di bombardamenti non convenzionali. Fisk, inoltre, intervista Assim Rahaibani, un medico presente a Douma il giorno dell’attacco. Rahaibani, quel giorno, opera in una clinica operativa in uno dei bunker sotterranei che affollano la città. Secondo la sua testimonianza, l’intossicazione dei civili sarebbe stata provocata dal fumo e dalla polvere dei bombardamenti governativi. Secondo il medico, inoltre, nessun ferito avrebbe presentato sintomi riconducibili all’uso di armi non convenzionali.
Sul luogo indicato come bersaglio di attacchi chimici viene condotta anche una prima inchiesta della polizia militare russa. Un comunicato del ministero della Difesa russo del 9 aprile 2018 smentisce il ritrovamento di sostanze chimiche nell’area di Douma. Anche secondo Mosca l’attacco chimico non sarebbe mai avvenuto.
Gli ispettori dell’Opcw entrano a Douma il 14 aprile, ma il loro lavoro può iniziare soltanto dieci giorni dopo.
Le conclusioni delle inchieste dell’Opcw
Dopo quasi tre mesi di lavoro, il 6 luglio del 2018 l’Opcw emette il primo rapporto preliminare sull’inchiesta per i fatti di Douma. In esso si specifica il non ritrovamento di evidenti prove dell’effettuazione di un attacco chimico nella città di Douma. In particolare, non vengono rilevate tracce di gas nervino nei campioni analizzati e di ferite riconducibili all’uso di armi chimiche. Le uniche sostanze “sospette” riguardano vari prodotti chimici clorurati rilevati tra i campioni. Quella dell’Opcw è una prima ricostruzione, non definitiva, e il lavoro da parte degli ispettori è destinato a proseguire nei prossimi mesi.
Per i detrattori di Assad, il rapporto dell’Opcw sarebbe condizionato dal passaggio di numerosi giorni tra l’attacco e l’avvio del lavoro degli ispettori. Per i sostenitori del presidente siriano e per lo stesso Assad, la relazione dell’Opcw sarebbe la prova maestra in grado di dimostrare l’innocenza del governo di Damasco.